Uguali, ma diversi


[risposta ad un'intervista, pubblicata su http://mosaicotfa.blogspot.it]

 

Nell’ambito della sua esperienza di docente di italiano ha riscontrato differenze sostanziali fra la generazione presente, generalmente definita col termine ormai abusato di “nativi digitali”, e le precedenti? Se sì, in cosa?

 

No e sì.

 

Per molti aspetti i ragazzi di oggi sono uguali ai ragazzi di ieri. I ragazzi di oggi, come i ragazzi di ieri, ridono, piangono, corrono, cazzeggiano, imprecano, talvolta pregano… Si abbandonano trepidi ai riti delle seduzioni, si baciano sotto i portoni, si amano, si lasciano, si commuovono per un tramonto sul mare… Cercano l’amico del cuore, vivono nel sogno di poi, si sentono belli o brutti, desiderati o reietti.

 

I ragazzi di oggi, come i ragazzi di ieri, si aggrumano sulle panchine di periferia, sciamano policromi per le vie del centro, cantano in coro al concerto della loro star cullando nell’aria le fiammelle virtuali del loro smartphone.

Centinaia, migliaia di smartphone che brucano la notte.

È questo che fa la differenza?

Sì, io credo di sì.

Io credo che i ragazzi di oggi siano uguali e diversi dai ragazzi di ieri. Uguali nelle pulsioni ataviche, nei sentimenti primordiali, nelle più primitive dinamiche di gruppo. Diversi, molto diversi, negli occhiali culturali con cui misurano il mondo e tracciano le coordinate spaziotemporali di una nuova possibile dimensione.

 

Se guardo i miei ragazzi incastrati in ridicoli banchini di fòrmica, se li guardo mentre li costringo a subire una pallosa lezione frontale, se li guardo mentre affrontano il compito in classe chini sul foglio protocollo d’ordinanza, se li guardo mentre sono interrogati davanti alla lavagna d’ardesia, con la polvere di gesso e muffa vaporizzata nell’aria, non vedo certo diversità sostanziali con le altre generazioni di liceali. Ma se osservo i miei ragazzi fuori dall’aula, nei corridoi della scuola, durante l’intervallo, all’aeroporto mentre aspettiamo il volo per Londra, in gita, in piazza, nei social, i miei ragazzi mostrano un vitalismo insospettato. Basta osservarli mentre spolliciano disinvolti sui loro mondi tascabili, mentre videogiocano, googlano, youtubano, whatsppano, taggano, hashtaggano condividono, messaggiano, chattano e deambulano perennemente appesi alle cuffiette dell’iPod per rendersi conto che i ragazzi sono diversi. E che hanno subìto una mutazione antropologica. Una mutazione che genera nuovi comportamenti, nuovi linguaggi, nuove narrazioni, nuovi sensi.

 

I ragazzi di oggi vivono in una sinestesia perenne, nuotano in un chiacchiericcio diffuso, trovano un senso alla loro vita nella condivisione frenetica (taggo, dunque sono!), disseminano nella rete miriadi di selfie per non perdersi nel vuoto di un troppo pieno, delegano inconsciamente la memoria alle nuvole, scontano la frammentazione cognitiva, sfumano il pensiero narrativo… E hanno nuove, quasi innate, abilità (il pollice intelligente?) che spesso non sanno trasformare in competenze.

 

I ragazzi di oggi sono digitali a loro insaputa. Sono inconsapevolmente digitali. E proprio in questa loro inconsapevolezza sta la prova provata della loro diversità.

 

Per questo io sono uno di quelli che ha usato spesso l’approssimativa e abusata etichetta di Prenski per provocare i negazionisti (i nativi digitali non esistono e assistiamo semplicemente ad un rituale passaggio generazionale) e i digital snob (la vera rivoluzione digitale l’hanno fatta i vecchietti analogici, mentre i ragazzi di oggi sono solo smanettoni superficiali). Anche se, a dire la verità, non è che la definizione di Prenski – pur con tutte le correzione e le avvertenze per l’uso che lo stesso autore ha messo in rete negli ultimi tempi – mi faccia impazzire. A me piace immaginare le nuove generazioni di viandanti del web come dei barbari. Dei barbari digitali. Dei barbari che respirano con le branchie di Google (A. Baricco). Orde imbelli di barbari a loro insaputa che invadono inconsapevolmente il nostro impero alla fine della decadenza.

 

Forse sto forzando un po’ l’analisi. Forse mi lascio trasportare da una pulsione ancestrale, dal desiderio appena confessabile che prima o poi qualche sussulto di primitivo vitalismo travolga finalmente gli scolastici musei per regalarci un po’ di adrenalina e sangue fresco.

E, in effetti, guardando le maree indistinta e apatica delle nostre scolaresche non si ricava l’idea di una fase violentemente propulsiva. Ed anche i miei ragazzi mostrano fragilità culturali, naufragano spesso fra l’indistinta schiuma di saperi che galleggiano nelle reti, hanno scarsa padronanza del pensiero sequenziale, fanno fatica ad ascoltare, possiedono un vocabolario ridotto e sono privi di quel consolidato patrimonio di conoscenze comuni tipiche delle scolaresche passate.

 

Però, bisogna anche desiderare di vederle, le cose. Bisogna guardare i nostri ragazzi oltre le consuetudini paludate della scuola. Oltre l’anacronistica costrizione del banchettino di fòrmica allineato e coperto. Oltre il rituale dell’omelia frontale. Oltre l’inganno comunicativo della interrogazione.

E se talvolta chiedessimo ai nostri studenti di raccontarci il LORO Foscolo con un filmato, di evocare la sostenibile leggerezza della LORO gita a Venezia con tre foto, di postare su facebook le LORO sensazioni sulla ricerca di romantico infinito… Se osservassimo i nostri studenti attraverso i LORO hashtag su Instagram o i LORO post sui social… Se li osservassimo, insomma, fuori dall’aula sorda e grigia, ci accorgeremo che, nel bene o nel male, i nostri ragazzi potrebbero veramente assomigliare agli agognati barbari.

 

Quando dico queste cose ai miei colleghi, vengo subito tacciato di guardare il mondo giovanile con le lenti edulcorate della speranza e di sottovalutare il danno celebrale causato dalla connessione perenne e quasi sempre acritica.

 

Calma e gesso, verrebbe da dire. Ragazzi inconsapevoli, interrotti, isolati, disadattati, borderline ci sono sempre stati. In tutte le generazioni e in tutti i contesti. Ed anche se siamo nell’epicentro di una mutazione epocale, non è il caso di enfatizzare crepe ed inquietudini. Se ci sono patologie si cureranno. Se ci sono pericolose distorsioni si correggeranno. Ma qualche inevitabile incidente di percorso non deve impedirci di confrontarci serenamente con le diversità e di andare incontro al nuovo senza pregiudizi né tabù. E se proviamo a mescolarci serenamente ai nostri ragazzi – nei meandri di google, nelle piazze di facebook, nei corridoi delle scuole – scopriremo  certamente  discorsi frantumati, schegge di banalità, pensieri interrotti e tante stupidaggini. Ma troveremo anche modalità nuove e seducenti di esprimere emozioni antiche.

 

I nostri ragazzi hanno una predisposizione istintiva alla multimedialità e al melting pot. Sanno raccontare e raccontarsi con rapide foto e svelti filmati. Sono maestri disinvolti nell’estetica del facile riuso. Prendono senza remore materiali dal web per manipolarli e inserirli in contesti diversi che ne moltiplicano le implicazioni e le potenzialità espressive. Hanno una straordinaria vitalità nel condividere e intrecciare pluralità infinite di legami multiformi.

 

 

Mescolandoci a loro, insomma, ci accorgeremmo che ancora una volta i barbari non sono giunti solo per distruggere e saccheggiare, ma per ridare vigore e sangue ad una dimensione umana ormai anemica e decadente. E che questo matrimonio fra diversi abiti mentali, ormai, s’ha da fare. Pena la noia, la reciproca lamentazione e l’ulteriore impoverimento del dialogo educativo.

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