L'epica del calcio

Ai tanti colleghi che mi chiedono perché in questi giorni io sia così depresso, addolorato, scostante rispondo francamente che sto ancora male per la sconfitta della juve. Chi sa, capisce. Persino gli interisti a cui sia rimasto un briciolo d’anima sportiva.

Ma i più, mi guardano strano. Pensano ad una qualche forma di masochistica ironia, ad un alibi per psicosi inconfessate, ad una probabile idiozia senile, od ad un infantilismo cronico. E partono d’acchito sorrisi di compatimento, e il facile sarcasmo, e le espressioni adulte di scandalo e stupore.

Già, perché un esimio professore nonché probo amministratore non può essere così patetico da stare male per una partita di calcio.

E io ad incazzarmi ancora una volta per tentare di spiegare che non sono afflitto per una partita persa. Tante volte, l’amarezza o la rabbia per una sconfitta sono svaporate in pochi minuti, in poche ore. Specie quando abbiamo perso giocando male, senza combattere. O semplicemente perché l’avversario è stato più bravo.


Ma questa volta la profonda tristezza deriva dal frantumarsi di un’iperbole. Dallo schianto violento del sogno ad un soffio dal traguardo. Dalla immeritata caduta in un orrido a pochi centimetri dalla vetta. Questa volta la tristezza deriva dall’aver sfiorato per un nulla la tempesta perfetta. L’onore eterno. Il mito. La leggenda. L’impresa che ci saremmo raccontati, padri e figli, per i decenni che ci rimangono di vita.

 

È tutto qui. Ma è tutto.

Siamo tristi, ma non domi.

Perché l’onore è salvo. E fra qualche tempo saremo ancora pronti a gioire e a soffrire per costruire altre mitologie possibili. Altre aspirazioni alla gloria e all’assoluto.

 

Perché il calcio è la nostra epica. Dove l'italietta fedifraga e stracciona può dare calci in culo alla perfida Albione. Dove i cattivi ragazzi cresciuti nei ghetti o nelle dorate fabbriche di facili illusioni, possono segnare il goal della vittoria, magari con una semirovesciata che s’immilla nell'aria eterna.

 

Perché il calcio è un rito. Privato e collettivo. Dove il padre ormai disincantato e il figlio ancora catechista imprecano all'unisono all'errore del centrale, e bestemmiano in dialetto per un negato fallo, e saltano, e urlano e s'abbracciano ubriachi di furore per la vittoria attinta all'ultimo sospiro.

 

Perché il calcio é la quintessenza della nostra profana antropologia. Dove istinti atavici e feroci s'annullano talvolta nei pianti degli eroi. Dove i calci, gli sputi ed i sorrisi imitano le gesta audaci o pavide di guerrieri e traditori di un tempo che fu. Dove la folla ondeggia nella follia esaltata di una dimenticata ebbrezza.

 

Perché il calcio è la reliquia della nostra mai domata tribalità, della nostra ereditata guerra, della nostra mai scordata fame. Del nostro istinto per la caccia, e per la fuga, e per la fama. Dei prodi e degli eroi.

 

 

Per questo, mi trovo ancora ad incazzarmi quando qualcuno m'investe d'un sorriso di compatimento, se confesso di soffrire per una partita di pallone.

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