angeli

La vecchia cinquecento blu con la portiera controvento tossicchiava allegramente per cento e più chilometri. Era un viaggio impegnativo e papà vi programmava due soste rituali per il caffè, la pisciatina e l'apertura scaramantica del cofano per raffreddare il motore.

Arrivavamo dalla nonna ancora in tempo per la prima colazione. Con il caffè d'orzo e qualche fetta di salame chiaro che si scioglieva sulla polenta abbrustolita. Gli uomini finivano il pasto con un bicchiere di Chiaretto.

 

La pasqua scorreva liscia fra corse e grida e chiacchiericci con parenti e amici. Poi si mettevano a cuocere le uova con l'erba, le rape rosse e non so cos'altro per colorarle di verde, rosso, nero e giallino. Il lunedì, dopo aver munto, rifatto il letto alle mucche e sfamato i porci, tutta la famiglia e tutte le famiglie del villaggio partivano per il colle. C'era sempre il sole. E la valle rifioriva di coperte fatte a mano, e di ceste casalinghe, e di salsicce che sudavano grasso su fiamme improvvisate. Noi ragazzini giocavamo a calcio in canottiera sbirciando le ragazze dai capelli lunghi che giocavano a fare le signorine. L'erba era alta e l'aria profumava di futuro. Le prime rondini sfioravano i nostri imberbi desideri. Ed il tramonto calava sempre troppo in fretta.

 

Io cucciolo, mi sentivo grande perché venivo da lontano. E avevo i capelli un po’ più lunghi. E i jeans americani. E sogni da scrittore. Così calciavo il pallone, e mi rotolavo nell’erba, e aiutavo la zia a portare la cesta con le uova e il salame e la focaccia cotta fra le braci. Ma sfidavo le ragazze grandi con sguardi scemi da futuro scopatore. E c’era una ragazza che mi intrigava più di tutte. Non era sexi. Né vistosa. Né vezzosa. Ma era grande. Seria e sorridente. Con una lunga treccia che si portava con gesto rituale sul davanti, adagiandola con apparente noncuranza sul seno già adulto e promettente. Organizzava i giochi dei più piccoli e mi parlava volentieri. Perché, diceva, io odoravo di sogni e di libri. E avrei avuto una bella storia. Lontana dalla valle e dalla sfinita pianura.

 

Si chiamava Carla. Ed io passai notti adolescenti a sognarla senza sospettare che un giorno, forse, mi avrebbe salvato.

 

Era l’inverno del mio primo anno di collegio. Un collegio squallido e melmoso. Retto da un prete viscido e maiale. Un prete magro con spessi occhiali e relativa corte di amanti rotondetti. Quando diceva messa prima di andare a Roma, ci faceva vedere le bustarelle che accomodava nelle sparite tasche della tonaca migliore. Quelle da mille lire per gli uscieri. Quelle da cinquemila per i segretari dei sottosegretari. E quelle grosse, col santino, per l’onorevole scudocrociato.

 

Il collegio viveva di rette e sovvenzioni pubbliche. C’erano figli di puttana, e figli di nessuno, e figli di figli abbandonati. E figli di operai che come me potevano permettersi un liceo solo perché avevo strappato in qualche modo una borsa di studio da accattoni.

Si trascinavano giornate opache in un labirinto della fede masochista e del degrado umano. Fra  varia umanità e oscene camerate dominate da capibranco osceni. E odor d’incenso, e cori, e strascicate litanie.

 

Ero lì per caso, senza una lira. Stavo coi forti, per non dover morire. Qualche cazzotto, qualche poesia e più di un compromesso. Vendevo temi per venti sigarette.

Il collegio ospitava soprattutto ragazzi che frequentavano l’attiguo istituto professionale.  Poi, in una camerata a parte, stavano tronfi una ventina di futuri ragionieri. Noi, del liceo, eravamo solo in tre. Due amici per la pelle e l’amante del prefetto. Dormivamo tutte e quattro in un cunicolo vicino alla scalinata. Anche se, per dire il vero, a dormire lì dentro erano soprattutto i due amanti. Ogni scusa era buona perché il prefetto ci cacciasse fuori, a me e Antonio. Così ricordo notti passate sulle scale a parlare di donne e di rivoluzioni. Talvolta ci calavamo per la grondaia rugginosa e scappavamo dal collegio nella notte. In quel paesone della bassa, sopito fra nebbie e odore di letame. Vagavamo fino al bar della Chiarina, per sbirciare tre ubriaconi ed una bagascia col passato da cantante. Avevamo quindici anni. E lunghi capelli. E anime fragili. Leggevamo il libro rosso. E il libro nero. E ascoltavamo Hendrix, e la locomotiva di Guccini. E gli inebrianti echi di un sessantotto che sparava. In città lontane, lungo l’autostrada, e oltre.

 

Antonio era bello. Aveva capelli neri che gli danzavano lucidi sulle spalle. Sempre abbronzato. Con gli occhi che parevano scappare ad ogni soffio. Pieno di vita. E di ragazze. E di cappotti di cammello. E di sogni. Era figlio di un padre ricco che l’aveva abbandonato ad una madre sola ed annoiata. Antonio è morto, molti anni fa. Scivolato su degradanti piste di droga e di follia. Ma in quell’era anch’io, come Antonio, calpestavo docilmente rabbioso ogni linea di confine. Sfiorando ad ogni spasimo d’amore il precipizio oltre ogni nulla. Nella ricerca vana di un equilibrio sbronzo fra dannazione e poesia.

 

Quasi sommerso, sono riemerso grazie agli occhi mansueti e saggi di Carla. Quella ragazza adulta dalla lunga treccia. Bella. Di una bellezza antica. Statuaria e dolce.

 

Fu proprio un lunedì di pasqua che la rividi dopo un paio d’anni. I miei mi avevano costretto ad andare con loro dalla nonna. Perché stavo male. Perché a scuola andavo da schifo. Perché nella vita andavo da schifo. E bestemmiavo. E fumavo. E bevevo. E frequentavo la perduta gente.

 

Quando arrivai, non salutai nemmeno. Mi chiusi in camera a scrivere versi suicidi. E a tormentare corde di chitarra da spremere per ferite musicali. Per gridare al niente che la vita è troppo dolorosa per un ragazzo che non sapeva più pregare. E non volevo più uscire. Non volevo più mangiare. E non sapeva più volere.

 

Forse avvertita da mio cugino Marco, Carla venne con gli amici a bussare alla mia porta. Vieni, mi disse sorridendo. Mi piacciono le tue storie. E forse puoi ascoltarne qualcuna delle mie. Vieni. Andiamo in Rocca a fare la pasquetta. Come quando eravamo dei mocciosi.

 

Non so se disse proprio così. Ma io avevo bisogno di afferrare quella fune. E di andarmene da lì. Dagli sguardi sconfitti di mio padre. E dalla rabbia soffocata di mia madre. E dalle sommesse giaculatorie di mia nonna che recitava rosari per la mia anima perduta. E così camminai triste assieme a quei ragazzi felici. Fino alla Rocca. E alle coperte distese sull’erba. E alle uova colorate. E alle salsicce che sudavano su fuochi improvvisati. Non giocai a calcio, come un tempo. E non feci comunella con gli altri. Ma parlai. Con Carla. Di Baudelaire e di Rimbaud. Di voglia di annegare il mondo e di fuggire. Di sogni impossibili e di preti bastardi. Di urla e di ferite. E di un disperato bisogno d’amore.

 

Era facile parlare con lei. Perché mi ascoltava con l’anima. E quasi piangeva quando le raccontavo del collegio. E di quella merda nella quale ero costretto ad essere stronzo per galleggiare. E quasi rideva quando le raccontavo delle fughe giù per la grondaia. E di come guadagnavo qualche soldo scrivendo temi sdolcinati per futuri ragionieri. E quasi mi accarezzava, quando le parlavo delle mie canzoni e delle mie poesie. E quando il tramonto ci abbracciò, e il vento ci scompigliò i capelli, e le parole diventarono sussurri, Carla chiuse gli occhi, e mi baciò.

 

Passiamo assieme anche la serata. E il giorno dopo. E l’altro ancora, prima che i miei mi riportassero in collegio.

 

Carla era grande. Grande e meditata. E pulita. Non c’era un filo di rossetto sulle sue labbra, né una lacrima di rimmel, o la goccia di un profumo. Ed il sorriso sempre accennato e mai sfacciato. E la lunga treccia ad accarezzare pudica il seno ormai maturo. Mi prendeva per mano e m’ascoltava, e mi scostava i lunghi capelli dalla fronte come un’incestuosa mamma. Mi prendeva per mano e mi parlava dell’imminente esame, e dell’università che avrebbe frequentato il prossimo anno, e della sua voglia d’Africa, e di bambini da aiutare. Parlava di dio e di tramonti in riva al lago con la stessa timida certezza.

 

Per lei ero l’adolescente fragile e ribelle. Bello e dannato. Puro e infernale. Un angelo caduto. Un bimbo da salvare.

 

Ed io mi sono innamorato della sua salvifica bellezza. Per lei ho cominciato a studiare come un matto quando il mio primo anno di liceo pareva irrimediabilmente compromesso. Per un po’ riuscii a trascinare in questa rinascita anche Antonio. Passavamo le notti sulle scale fumando nazionali senza filtro e saltando eccitati da Seneca, a Virgilio, alle equazioni di un qualche grado, a Leopardi e alla geografia astrale. Poi, mi appartavo un po’, per scriverle lunghe lettere. Il nostro, infatti, era un amore epistolare. Un amore fatto di poesie, e di suoni di parole, che ridisegnano mondi e dimensioni. Solo un paio di volte prima dell’estate mio padre riuscì a portarmi dalla nonna. E io riuscii così a passare qualche ora con lei. A confondere i nostri sospirati desideri e rubarle qualche bacio.

 

Intanto, il miracolo avvenne: recuperai latino, e matematica e tutto il resto. E così potei mantenere la borsa di studio e proseguire la mia storia da liceo. Ma la storia con Carla finì.

 

Finì quando iniziò l’estate. E ci incontrammo di nuovo vicino al lavatoio, sotto la grande quercia. E sotto grandi attese. Che svaporarono nello spazio di un mattino. O poco più. Io volevo il suo sorriso, la sua anima ed il suo seno. Lei s’aspettava l’uomo che non ero.

 

Così, la nostra storia fatta di sogni e di parole scritte sui facili inganni della carta, non resse alla prova della vita. Passammo ancora qualche acerba sera accanto al vecchio lavatoio, sotto la grande quercia, senza più grandi attese. Provammo e riprovammo ad evocare complici sussurri e qualche bacio che sapesse almeno un poco dell’incanto epistolare.  Ma l’incanto non tornò. E lei partì per la città. Mentre io mi gettai famelico di vita su ragazzine più immediate e compiacenti.

 

Chissà dove e a chi sorriderà ora. E se ancora, qualche volta, ripenserà benevola all’inquieto adolescente a cui un tempo ha regalato un’altra vita.