la perfezione dell'amore (racconto)

C’era ancora Franco in quel tempo. E la Spagna pareva una vecchia stampa seppiata. Poche automobili. Pochi trattori. I vecchi perennemente seduti contro il sole. Qualche capra. Qualche somaro. La miseria della terra e della dittatura.

C’eravamo andati in una lunga vacanza. Io, Giulio, Giuseppe, Maurizio, Vincenzo… Compagni di viaggio e di studi. Impuniti e seducenti, nella nostra giovinezza intensa e disperata. Attraversavamo la vita, e il mare, e le strade assolate, ubriachi di sogni e di saggezze antiche imparate su rosari di libri.

Parlavamo di Rivera e di Pessoa, di Hemingway e di Guccini. Ai tavolini dei bar, sotto ingenui pergolati. Vicini all’orizzonte e alla calura. Oscillando vissuti coppe dorate di Jerez o Cardenal Mendoza. Mentre Giuseppe pigiava il tabacco nella pipa, Giulio ostentava il sigaro cubano e io lasciavo penzolare dalle labbra una sdrucita Camel senza filtro.

La sera, dopo la rituale nuotata nel tramonto, passeggiavamo pigri sulla rambla, in una nuvola di nostalgia per quel mondo vecchio che sarebbe ben presto svaporato. E cercavamo gli sguardi maliziosi delle ragazze in fiore, struggenti nel loro mescolarsi all’esotismo delle prime, nascoste, libertà. Ed erano duelli di sguardi, e di sorrisi, e di parole un po’ strappate alle canzoni e a qualche film francese.

Era facile fare amicizia con le ragazze di Matarò. Bastavano i nostri lunghi capelli, e la nostra sfrontatezza, e le battute di Maurizio, e la chitarra di Giulio… E si finiva a passeggiare lungo il mare, verso il porto vecchio, dove le luci dei locali annunciavano la festa della notte. Io preferivo la terrazza del ristorante di Jordà dove si annusava l’odore del porto mentre in rapida sequenza  enormi teglie di paella venivano adagiate su lunghe tavolate di legno invecchiato da anni e anni di salsedine e sole.

Fu lì, che incontrai Manuela.

Quella sera me ne stavo un po’ in disparte. Seduto a cavalcioni della balaustra di pietra slabbrata, col taccuino degli appunti sulle ginocchia, tanti pensieri e lo sguardo perduto verso il mare. E lei attraversò la spiaggia, con le scarpe in mano, e la minuscola gonna, e una maglietta sottile, e l’incedere sensuale di un bocciolo di donna. Sorrise al mio sorriso. Tu devi essere Mario, il poeta:  Carmen mi parla sempre di te. E tu chi sei? Manuela, l’amica di Carmen.

Carmen era una delle ragazze che stavano con noi da qualche giorno. E che in quel momento era con gli altri, sulla terrazza. Così, saltai giù dalla balaustra e raggiunsi la compagnia con Manuela.

Presentazioni, e chiacchiere, e un paio di bottiglie, e la paella e Giulio che prende la chitarra e vena di nostalgia il tempo della giovinezza che trascolora troppo in fretta.

Io non riuscivo a non guardarla. E a non respirarla. Aveva il profumo fresco dei sedici anni, e del seno acerbo che traspariva dalla maglietta troppo stretta. E gli occhi. Quegli occhi. Grandi, e neri, e innocenti, e maliziosi. Che parevano danzare imprudenti sotto l’impudico velo di una frangetta sbarazzina.

Se ne andò per prima, dopo un’oretta. Perché i suoi non le permettevano di stare fuori fino a tardi. La rincorsi oltre il viale che separava il porto dalle prime casupole del centro. Quando mi vide, si fermò ad aspettarmi. Sorrise. Poi, piano, si avvicinò alla panchina davanti al piccolo sagrato della chiesa di Sant’Anna. C’era solo un lampione lontano a diluire il velo della notte. E la luna, sospesa a un filo di garza, sbucava appena dalla cupola panciuta del campanile.

Non conoscevo molte parole di spagnolo e lei parlava solo un po’ il francese. Ma il nostro fu un dialogo di sguardi e di palpiti attesi e di tacite promesse. Pochi minuti, lenti come un ricordo. Ora devo scappare, disse. Mio padre… Ma domani è la festa delle Sante, e potrò star fuori fino a tardi. Ti aspetto qui. Alle nove.

Poi si avvicinò fino toccarmi. E mi prese la mano. E mi passò l’altra mano fra i capelli.

Sei bello, mi disse. E mi sfiorò le labbra con un bacio leggero come una nuvola d’autunno. Prima di correre via, oltre la piazza, e il buio, e la luna.

Camminai per ore nella notte. Sulla spiaggia al di là del molo. Ad ascoltare il suono fine delle onde sulla sabbia. Ad annusare il sapore provocante di un timido vento.  A ripassare con l’anima il profumo acerbo di quel bacio. E a scrivere nella mente l’etereo poema di sempre che canta la bellezza dell’incanto d’amore.

Il giorno dopo Matarò era in festa. Una di quelle feste popolari che esaltano l’intrigo barocco fra sacro e profano. Ovunque mercati, e tori, e fiori, e banchi di cibo, e fumi, e fiumi di birra e di vino. E giostre, e buffoni, e accattoni e qualche puttana. E poi, sottosera, la fiumana di gente che segue la processione dietro le statue di legno delle sante marie. E i preti, e l’incenso, e i canti di donne, e preghiere, preghiere di preghiere. Poi altri canti dalle taverne. Il popolo vestito a festa tracima da case e viottoli e palazzi e si spande per ogni contrada.

Varco la piazza a fatica e arrivo davanti a Sant’Anna. C’è un po’ meno folla che nelle vie principali. Ma la panchina è occupata da un branco di ragazzini agitati. Sono le nove e lei non c’è. Accendo una Camel e cerco conforto nella luna. E nella poesia di un profumo di bacio rievocato. Respiro forte, come se dovessi affrontare un salto disperato. Poi, trattengo il fiato. E mi accordo di avere paura. Paura di non vederla più.

Manuela arrivò, alla seconda sigaretta. E il cuore si fermò.

Seduto sul secondo gradino della chiesa, scorsi per prima le sue gambe nude spuntare dalla ressa infervorata. Poi la gonna inconsistente appena sotto l’ombelico. E la scollatura birichina  di una maglietta nera che tratteneva a stento il seno birichino. Quando arrivai agli occhi tentai un po’ di respirare. Lei sorrise. Io mi alzai. Lei mi baciò, furtiva e impenitente. Vieni, mi disse. E prendendomi per mano, quasi di corsa, mi trascinò dentro la folla.

Arrivammo, quasi di corsa, nella Piazza delle Due Terese, dove decine e decine di banchi del mercato si contendevano pesetas con varia mercanzia. Più avanti, in un angolo di strada, panciuti mercanti catalani vendevano montagne di dolciumi. Manuela comprò una tortilla al cioccolato e trovato un po’ di spazio dentro il cortile di un palazzo si fermò. Appoggiata al muro. Maliziosa e divertita. Mentre affondava i denti candidi nel cioccolato ancora caldo e molle. Poi mi imboccò e senza aspettare che deglutissi tutto il cioccolato, mi baciò. Con gioia e con passione.

Ma fu un istante. E già, prendendomi per mano, mi trascinò ancora nella piazza e fra la gente. E fra le grida, ed i rumori, e i forti aromi, ed i colori che mi schizzavano negli occhi mentre fendevamo la varia umanità vociante incuranti di spinte e di proteste.

Approdammo nel vasto giardino aperto di una villa. Manuela rallentò il passo, mi lasciò la mano e mi guardò, quasi felice. Poi si sfilò ribelle le ballerine di vernice nera e camminò nel prato, a piedi nudi, verso una piccola collina. Ci volle un po’ per abituarmi al buio appena diluito dal chiarore ovattato della luna. E a scorgere, dietro il sipario di alberi e d’arbusti, un tempietto greco dell’amore, con statue antiche, muschio e balaustre di pietra un po’ sbrecciata.

Questa volta fui io, a prenderle le mani, e a premere leggero sul suo corpo adagiato alla colonna, e a baciarla ubriaco di bellezza. Un bacio lento, languido e disperato.

Con un fremito improvviso, Manuela mi scostò un poco. Parlandomi con gli occhi. Ma il suo seno ancora mi sfiorava e lei era bella oltre ogni umano desiderio. E così, provai di nuovo a stringerla e a baciarla e a… No. Non ora, non qui, mi sussurrò.

E infilate le scarpe, quasi scappò, di nuovo, attraverso il prato.

E di nuovo fummo avvolti dalla festa e dalla musica che s’avvoltolava sulla gente da ogni strada e da ogni piazza e dalle grida e dagli odori di cibi e d’oriente e dai guitti e giocolieri e dalle frotte di ragazzi che scoppiavano la loro giovinezza nella notte illuminata da mille fiaccole e lanterne.

Manuela mi teneva ancora per mano, e affondava nella folla con l’incoscienza del suoi sedicianni e con lo sguardo sfrontato da angelo ribelle.

E correndo mi trascinò di nuovo nel Calle della Rambla dove ci infilammo dentro un negozio zeppo di turisti e carte e souvenirs. Le sue mani toccavano curiose collane e spille e anelli e si fermarono solo quando trovarono l’oggetto che lei considerava adatto: un braccialetto di povero metallo con una medaglietta chiara, forse d’avorio. C’era tracciato il volto assorto della luna e una scritta in catalano: sei il mio sogno. Lo comperò, contenta. E appena fuori nella strada, cercò riparo dalla folla nell’androne semibuio di un palazzo antico. Mi attirò a sé  con la levità di un angelo sedotto e ancora, leggermente, mi baciò. Poi mi allacciò il braccialetto. E mi respirò con gli occhi. Dove scorsi, per la prima volta, un velo di tristezza nella sua gioia primitiva. E avrei voluto naufragare all’infinito nel suo profumo, e nel suo sorriso, e nel suo seno, e…

Ma lei continuò il suo gioco arcano e misterioso. E prendendomi ancora per la mano si rituffò nel flusso folle della vita.

Si avvicinava intanto la mezzanotte. E i canti popolari si facevano via via più arditi. E ad ogni angolo di strada si improvvisavano balli infervorati e allusivi. Frotte di giovani ubriachi tagliavano la notte con grida di lotta e di passione. Mentre gli anziani già prendevano posizione verso il mare da dove sarebbe scoppiata la furibonda battaglia di fuochi artificiali.

Anche noi, di corsa, planammo verso il mare. Ma non verso la spiaggia principale, dove accorreva la folla affamata di facili emozioni. Ma più in là. Molto più in là. Verso le mura  diroccate del porto abbandonato. Lontani. Lontani dalla ressa e da ogni dove. Dove il rumore della fiesta giungeva come un’eco abbandonata dalla storia.

Attraversammo eccitati l’ultima striscia di sabbia. Sfiorandoci ogni tanto. E baciandoci leggeri. Fra fantasmi di altri innamorati che come noi cercavano un scampolo di notte e di silenzio. Io ero stordito. Folle ed ubriaco senza aver bevuto. Avrei potuto attraversare il fuoco o gettarmi in volo dalla più alta rupe se solo lei me lo avesse chiesto. Turbato, e frastornato, ed accecato di baci e di impossibili pulsioni.

Manuela rallentò, un poco. Si orientò nel debole chiarore e si fermò davanti ad un recinto arrugginito che doveva tenere lontane le persone dal vecchio forte pericolosamente diroccato. Un cartello minaccioso avvertiva del pericolo di crolli. Lei sorrise, ardente e maliziosa. Poi, trovò il punto che cercava. E mi fece cenno di passare sotto alla rete.

Ancora qualche passo nella sabbia. Il buio, il rumore lontano della festa, il profumo del mare, la luna, e il cuore che mi pulsava in testa e in ogni dove, quasi volesse strapparmi l’anima per fuggire.

Sempre tenendoci per mano, giungemmo accanto al cumulo inquietante di rovine, fra le quali s’alzava minaccioso il torrione antico e fatiscente. Entrammo. E cominciammo ad inerpicarci sulla stretta scala di sconnessa pietra. Appoggiandoci con una mano alla parete umida e muscosa. Scalino dopo scalino. Respiro dopo respiro. Sfruttando qualche ombra di chiarore che penetrava dalle massicce feritoie. Ma di fatto procedendo al buio, incuranti di pericoli o minacce. Passo dopo passo. Respiro dopo respiro. Fino all’ultima rampa, con gli scalini sempre più rovinati e traballanti. Ma su di noi, ormai, si vedevano le stelle, e il pallore della luna. E i nostri passi si fecero più arditi. Ed imprudenti. E felici come bimbi che sguazzano nel mare arrivammo sulla cima. Liberi di nuovo nell’aria amica della notte.

Sopra il torrione la terrazza è ampia. Da lì si domina la spiaggia e la città incendiata dalla festa.

C’erano altre copie, lassù, che avevano inseguito il nostro stesso sogno. Ma noi ci sentivamo unici e invisibili. Pure parvenze aeree. Esseri divini con impulsi umani. Troppo umani. Trovammo un pudico angolino per abbandonarci, tutti tremanti, all’eternità d’un bacio denso di sospiri.

Due scoppi squarciano la notte. E subito comincia l’incendio dei fuochi artificiali sulla spiaggia, rasente il mare. Uno spettacolo grandioso. Un tripudio di luci e di colori che s’immillano infiniti fra acqua e cielo. E sotto la città pulsante di sogni e di allegria. E tutta la fragranza della vita fra le mie mani.

Manuela osservava incantata il mondo intorno a lei. Come sospesa in aria. Appoggiata appena al parapetto di fortuna, quasi tratteneva il respiro. Io l’abbracciavo da dietro, tremante di paura e desiderio. Avevo paura di insudiciare la sua divinità. Ma avevo l’esplosivo desiderio di stringerla forte e di fondermi con lei. Sentivo il suo seno, e il suo cuore, e tutto il suo corpo tremare nel mio immorale abbraccio. Per lunghi, eterni minuti.

Dopo il rituale crescendo di scoppi e di luci lo spettacolo si spegne. Gaudente la città applaude lontana. Il buio ci avvolge di nuovo. Mentre le altre coppiette lasciano piano la terrazza, Manuela appare lontana, immobile a fissare il mondo che si svuota. Singhiozza. Poi si gira. Ha gli occhi umidi, ma non rinuncia al sorriso. Mi abbraccia, forte, premendo il seno sul mio petto. E il ventre sul mio ventre. E mi bacia. E mi pare di morire.

Non qui. Non ora. Mi sussurra di nuovo. Conosco un posto dove ogni sogno trova la sua pace.

Mi prende ancora per mano. E scendiamo le ripide scale. E corriamo sulla sabbia. E attraversiamo di nuovo il recinto. E corriamo su altra sabbia. E attraversiamo le strade che si stanno svuotando. E attraversiamo la piazza. E corrono i miei sensi, e le mie paure, e i miei desideri. Questa notte, penso, si compirà il miracolo totale, e godrò della ragazza più bella del mondo, e costruirò l’istante perfetto, e…

Siamo ormai davanti alla chiesa di Sant’Anna. L’alcova dovrebbe essere da queste parti, penso.

Manuela mi stringe più forte la mano. E si ferma, davanti alla chiesa. Accanto alla nostra panchina. Leggermente ansimante. Sudata. Con le guance arrossate. E il seno che preme sulla stretta maglietta. E la minuscola gonna. E il ciuffo ribelle. E gli occhi, e il sorriso, e… 

Sei un sogno. Sussurra. Il mio unico sogno. Ci troviamo qui, domani, alla solita ora.

Poi scappa. Di corsa. Senza un ultimo bacio.

Non ho più rivisto Manuela.