un pacchetto di gitanes

Quest'estate con Fiorenza abbiamo ripulito la soffitta della casa di campagna. Fra le mie robe abbandonate c'era una scotola di latta, quasi piena di cimeli della mia giovinezza scapestrata. Fra gli altri, una busta ormai ingiallita, con dentro un pacchetto strappato di Gitanes. La busta veniva da Parigi.

Era una Parigi ancora da cartolina quella che attraversavo lento con la poesia dei miei vent'anni o poco più. Con la sua Senna in controluce che faceva da fondale ai venditori di vecchi libri e di acquerelli démodé. E le stradine di Montmartre colorate di pittori vestiti da pittori per sciami di turisti pudichi e sognanti. E i bistrot di Saint Denis dove amavo prendere un Pernod in compagnia di prostitute gentili e sorridenti. E il rituale tuffo sul piazzale del Beaubourg dove grappoli di giovani venuti da ogni dove s'aggrumavano vocianti attorno a poeti e saltimbanchi. Passavo ore a camminare. Ad ascoltare. Ad annusare. E a scrivere a memoria romanzi che non ricordo più.

Quel giorno, però, l'avevo trascorso interamente in biblioteca, a trascrivere libri rari per la mia tesi sul mito letterario di Parigi. Avevo lavorato intensamente, seriamente, senza pause nemmeno per mangiare. E quando l'attempata signorina mi disse gentilmente che era ora di chiusura, mi accorsi di essere stanco ed affamato.

 

Fuori c'era il sole del tramonto immaginato fra cimase di palazzi classici e barocchi. Un sole mite di fine agosto. Tenero e struggente. Chiusi gli occhi fra il fumo della prima sigaretta e provai a desiderare un desiderio. Quindi sorrisi alla mia giovinezza e, addentando una baguette, m'incamminai verso il Marais col mio zaino di libri e di domani.

Sbucai in Place Des Vosges col solito stupore impigliato nello sguardo, per l'incanto di quel prato alberato all'ombra di palazzi austeri. E la solita presenza di mamme e carrozzine e qualche giocoliere e padroni al guinzaglio di cani da giornale e il venditore di gelati e bimbi saltellanti e nordici turisti con gli occhiali e la giacchetta cachi. Un vociare festoso, ma sobrio ed educato.

Trovai con lo sguardo uno spicchio di prato contro il sole, accanto ad uno dei tigli che stanno vicino alla fontana. Mi accovacciai, col quaderno degli appunti sui ginocchi e gli occhi che respiravano quel quadro pitturato dalla mia voglia di una Parigi antica. C'era persino una fanciulla bionda e riccioluta che provava passi di danza complicati sotto lo sguardo compiaciuto di una mamma fragile e compita.

Per un po' cercai di concentrarmi sugli appunti. Quasi felice di sentirmi parte di quel quadro. Di quell'aria parigina tante volte indovinata nei versi di Prévert. O fra le amiche righe di Proust, e di Balzac e Simenon. Che tra l’altro abitava proprio lì, in uno dei palazzi della piazza.

Cercavo fili rossi fra note ironiche e saccenti. Chiosavo qualche chiosa. Evidenziavo parole d'anime e di cuore. Ma solo per un po'. Perché lo sguardo subito s'alzava a rimirare quel frammento d'universo immoto. I volti, e i colori, e i rumori, e gli abbaini verso il cielo, e un gatto a gara coi piccioni.

 

Il cuore si fermò come il respiro, quando incontrai il suo viso. Bello. Di una bellezza antica e seducente. Leggermente reclinato sul libro aperto.

Se ne stava accovacciata a un paio d'alberi da me. Contro il sole che piano svaporava. Così vicina.  E così lontana. Prigioniera del suo libro. O forse chiusa nel suo sogno. Dietro l’impudico velo dei suoi capelli neri. Dentro la carezza fredda del suo abitino nero. Dietro grandi occhi che si specchiavano incantati nelle pagine aperte sopra le ginocchia nude.

Vedevo solo lei. Talmente bella e sorprendente che mi ubriacai di desiderio. E cominciai in affanno a pensare e ripensare come poterla avvicinare. Come poterle dire che non avrei vissuto senza ascoltare almeno un poco la sua voce. Senza poter sfiorare il suo respiro.

Mentre pensavo e ripensavo, lei chiuse il libro con gesto misurato. Indugiò a lungo, prima di riporlo con calma rarefatta nella sacca di stoffa raffinata. Era come se non avesse troppa fretta di riprendere contatto col mondo intorno a lei.

Io seguivo il suo sguardo che seguiva il teatro della vita. I suoi occhi neri e misteriosi parevano accarezzare le cose e le figure che s'animavano in quella sospensione di crepuscolo d'antan. E mi trovai a pregare ogni olimpico dio dell'amore.

Il miracolo sembrò accadere, per un attimo. Per un attimo, sembrò accorgersi di me. Forse sorrise. O forse era solo una visione del mio esaltato desiderio. Perché subito si alzò. Con eleganza da levare il fiato. Scostò i capelli. Prese la sacca. Indossò gli occhiali scuri. E mosse qualche passo verso l’arco che immette in Rue de Birague.

Atrofizzato dal terrore di veder svanire un sogno, quasi urlai. E poi d'incanto la follia mi fece alzare, e camminare, e quasi correre. In un respiro le fui accanto. E quasi la toccai.

- Rimani ancora un poco. Te ne prego.

Si fermò. E si fermò il tempo. E si fermò lo spazio. In una attesa trasparente e silenziosa. Sotto quell'ultimo tiglio prima della strada. Prima della notte. E del silenzio. Si fermò. E mi sorrise.

- Pardon?

- Rimani ancora un poco. Te ne prego: il quadro non sarebbe perfetto senza te.

Sorrise ancora, togliendosi gli occhiali:

- Questo quadro non è poi tanto male anche con te.

Il respiro mi tornò quasi normale e forse riuscii ad abbozzare un'espressione quasi sicura, da fascino latino o giù di lì. Restituii il sorriso che sperai fosse un poco malizioso:

- Un aperitivo?

- Non avrei molto tempo...

- C'è un grazioso caffè a due passi da qui.

- Un momento, solo un momento…

Pochi passi per raggiungere in silenzio il Café Hugo, dove una folla poliglotta affollava il pergolato che s'affacciava sulla strada. Per fortuna una signora anziana ed elegante intercettò le mie occhiate inquiete, mi fece un fugace cenno con il capo e si alzò, lasciando libero il suo invitante tavolino. La ringraziai col cenno di un inchino e ci sedemmo rilassati e belli. Come una favola d'autunno sul fare della sera.

Io ordinai un Pernod e lei un Pastis. Io accesi una Gitane e lei disse che non fumava. Io ringraziai gli dei e lei mi regalò una risata fresca e cristallina. Parlammo per un po', come vecchi amici che si ritrovano dopo un lungo viaggio.

Si chiamava Justine, era spagnola, ma viveva a Parigi da qualche anno. Studiava alla Sorbona, si manteneva facendo traduzioni, e scribacchiava di letteratura su riviste raffinate che nessuno conosceva.

Io ero Mario, ero italiano, e vivevo a Parigi da qualche mese per scrivere la tesi e poco più. Studiavo lettere a Bologna, mi mantenevo facendo mille cose, e scribacchiavo di letteratura su riviste accademiche che nessuno poi leggeva.

Parlava un francese letterario, con seducenti riflessi catalani. E profumava di nuvole e di fieno. E aveva occhi scuri come sperate lontananze. E un palpito di seno disegnava nostalgie sull'abitino nero che accarezzava senza pieghe un corpo scolpito per la danza. Mi ci annegavo ad ogni istante, nel suo seno. E nel suo sguardo morbido e distante.

La sera ci avvolse impudente, tiepida e fuggitiva. Mentre nell'aria danzavano le note adolescenti di una canzone d'amore.

Justine guardò l'orologio. E si morse il labbro, passandosi nervosamente le mani fra i capelli.

- Devo andare, disse impallidendo.

- No, dissi, non puoi lasciarmi. Non puoi lasciarmi ora.

Mi posò la mano sulle labbra.

- Vorrei, Mario. Vorrei restare. Ma non posso. É stato bello. Tu sei bello… Ma devo andare.

- Domani, Justine. Troviamoci domani...

- Sono impegnata, Mario. Non possiamo.

- Anch'io sono impegnato, ma...

- Ma, ma, ma... Troppi ma. Non sciupiamo questo istante...

Mise gli occhiali scuri nella sacca e chiamò il cameriere. Posai i pochi franchi nel piattino. Ci alzammo lenti. E silenziosi. E tristi.

Volevo pregarla, supplicarla, mettermi in ginocchio, urlare, abbracciarla, picchiarla.

Mi prese per mano e mi portò in silenzio di nuovo in Place des Vosges. Il prato alberato ora era quasi voto. E la notte si faceva ferire solo dai radi e pallidi lampioni. Mano nella mano ci trascinammo sotto il tiglio che ci aveva accolto solo un'ora prima. Ci fermammo. Mi prese anche l'altra mano. E lieve, quasi evanescente, appoggiò appena le sue labbra sulle mie.

- È come aver trovato un bel racconto, sussurrò, In fondo a qualche vecchia libreria. Bello, ma breve. Lo rileggeremo nella nostra mente. Fra qualche mese. O qualche anno. E ne sorrideremo...

- No, Justine, dissi quasi disperato, i bei racconti hanno un finale...

- Ti sbagli, Mario, sussurrò. Lo scioglimento profana ogni bellezza.

- Una volta, un giorno ancora...

Mi lasciò le mani. E si scostò. E inarcò le labbra in un sorriso labile e crudele.

- Addio, Mario. Sussurrò appena mentre girava su se stessa.

Lentamente cominciò a camminare verso la notte. Tenera e ferina. Avrei voluto pregarla ancora, e supplicarla, e picchiarla, e seguirla, e carpirle un indirizzo, un numero di telefono. Ma non ci stava con quel tipo di racconto. E con il cuore ghiacciato, urlai un sussurro disperato:
  - Domani, Justine, domani, alla stessa ora, io sarò qui. Ad aspettarti. Lei si voltò appena, e se ne andò.

Accesi una Gitane e guardai il cielo vuoto di Dei e di sospiri. Mentre il dolore muto del desiderio inappagato mi lacerava. Come una fatale punizione per aver tradito l'amore mio lontano. Ma non potevo non pensare a lei. A quelle labbra di farfalla acerba. A quel profumo. E a quello sguardo di luce e di mistero.

Solo allora ricordai il mio appuntamento con Nino.

 

Nino era un curioso professore di francese. Mezzo italiano e mezzo finlandese. Ma anche un po' tedesco ed olandese. Come esperto d’arte era a Parigi con la sua compagna giapponese per allestire una mostra di stampe orientali. Io gli facevo un po' da amico e da assistente e da maestro di vita proletaria e provinciale. Lui mi iniziava ai leader di Chopin e ai segreti di pittori sconosciuti.

La galleria di Michelle Lagarde occupava il primo piano di uno dei palazzi prestigiosi che s'affacciavano sulla piazza. Ci arrivai di corsa, ma ci trovai solo Chastel che scattava le ultime foto. Andammo assieme ristorante.

Quella sera la compagnia aveva optato per un ristorante giapponese. Il migliore di Parigi. Già denso a quell'ora di soffici eleganze, e di camicie inamidate e lucentezze di signore ingioiellate. Appena entrato mi vergognai un po' per i miei jeans sdruciti, e l'anonima t-short, e le scarpe da basket piuttosto stropicciate. Ma il disagio durò lo spazio di un secondo perché a quello sfoggio di opulenza decadente io potevo contrapporre da vincente la mia romantica arroganza da barbaro sfrontato.

Con la sicurezza del predestinato, Chastel mi fece strada nella saletta riservata dove volti conosciuti stavano celebrando il rito stanco dello sushi e delle chiacchiere garbate. Io ero il loro nuovo svago: un ragazzotto provinciale che parlava un francese imparato sui romanzi di Balzac, che non sapeva dominare i bastoncini giapponesi, che non distingueva un Chateau Lafitte da un Chateau Margot e che blaterava con entusiasmo di Marx e Valery, di Barthes e di Queneau.

Marguerite Durègne de Launaguet - la bella ereditiera che patrocinava la mostra - dominava la scena con carisma e risate contagiose. Accanto a lei il marito banchiere e la sua amante levigata. Poi Nino e la compagna giapponese. Il critico famoso e il suo compagno. Il professore belga con la nuova e sensuale assistente. E naturalmente Chastel che flirtava con Marie. E Brigitte, Michelle, Patrick... Io stavo vicino a George Ducros, un grafico triste e solitario, e a Gabrielle.

Gabrielle era l’anima di quella bizzarra compagnia. Fresca e sorridente, faceva da argine alla genialità disordinata di Nino, smorzava con disinvoltura le frequenti intemperanze di Chastel, si preoccupava di gestire con teutonica precisione tempi e calendari e faceva in modo che i nostri pasti fossero più o meno regolari. In quei giorni io dormivo da lei, nella sua ovattata mansarda di Rue Saint Denis. Qualcuno poteva pensare che io fossi il suo temporaneo trastullo sentimentale, anche se tutti sapevano che Gabrielle era da tempo l'amante appassionata di Marguerite.

La cena procedette come da copione. Ed io partecipai a quella fiera della vanità nel mio ostentato ruolo da aspro provinciale facendomi portare una forchetta al posto de bastoncini, schifando un poco il pesce crudo e gli involtini fatti con le alghe, chiedendo un po' di vino al posto del tè al gelsomino, e disquisendo di barricate, poeti alternativi e proletari.

Sorridevo a quella preziosa messe di intellettuali fini, e di belle donne colte e ingioiellate. In uno dei locali più alla moda di Parigi. Accanto a chi tira fili di destini. A chi vive il quotidiano dramma di non avere veri drammi da affrontare. E mi pareva d'essere in cima a qualche mondo. E mi pareva che anch'io avrei potuto. Ma ad ogni pausa di pensiero ammaestrato, la mia mente dipingeva l’eccitante simulacro di Justine. E il nero inquieto dei suoi occhi. E la sua pelle nuda respirata appena sul fare della sera.

Quella notte rimasi a lungo sveglio. A pensarla e ripensarla. E a sognarla, quando finalmente m'assopii.

Mi svegliò la polvere di sole che filtrava dall’abbaino aperto sotto il cielo. E il miagolio vezzoso della gatta che reclamava i croccantini. (Evidentemente Gabrielle non era rientrata quella notte).

Restai a lungo a letto a respirare l’ansia dell’attesa. Poi lasciai scivolare il tempo fra la doccia, la gatta ed una colazione pigra, prima di inabissarmi piano nel vocio di gente che già affollava Rue Saint-Denis.

 

Era quasi mezzogiorno quando varcai l’imponete soglia della Bibliothèque Historique. E fu la solita bibliotecaria col solito sorriso a consegnarmi i soliti libri fra i quali mi perdevo ormai da giorni. Ma non in quello. In quello no, non riuscivo proprio a perdermi nelle cronache di una Parigi antica, e nei racconti sconosciuti di Honoré e fra le strade proibite tracciate sulle preziose mappe. Provavo e riprovavo a leggere, e a capire, e a chiosare, ma sempre e sempre il vento del pensiero andava altrove. E così, anziché le note per la mia tesi su Balzac, mi ritrovai a scrivere versi d’attesa.

Provai ad ingannare il tardo pomeriggio passeggiando senza meta sul bordo della Senna. E cercando nell’indolenza dei passanti una ragione alla fretta di vivere. Ma ogni sguardo di ragazza, ogni volo di gabbiano, ogni vestito leggero, ogni profumo di seta mi rammentava crudele che è vano sperare d’adagiarsi. E che è necessario come l’aria desiderare di desiderare.

Con molto anticipo arrivai a Place des Vosges, passeggiando nervoso attorno al punto dove la sera prima Justine mi aveva baciato. E quasi non mi pareva vero. Quasi pensai d’aver sognato. E che Justine fosse solo la proiezione malata della mia fantasia da romanziere mancato. M’appoggiai al tiglio, vicino ad una coppia di ragazzi innamorati. E ad altra gente che popolava la piazza erbosa di chiacchiere e sorrisi. Accesi una Gitane. In un romanzo lei sarebbe giunta sul fare della sera.

 

E Justine arrivò sul fare delle sera. Illuminata appena da un cenno di tramonto. Camminava leggera, verso il mio sguardo ghiacciato. Verso il mio cuore fermato. Camminava decisa, in un gonna stretta. E in una maglia stretta. E con lo sguardo quasi sorridente sui miei occhi increduli e bambini. E camminò senza incertezze fino al tiglio da cui non mi scostavo. E mi toccò i capelli con la mano e mi baciò.

Sei un uomo di parola, sussurrò scostando le sue labbra dalle mie.

Sono un uomo fortunato, sussurrai tentando di baciarla ancora.

Non dirlo, Mario. E non pensarlo. Io... io sono una donna complicata...

Ma ora ci sei. Sei qui. E...

Mi zittì, appoggiandomi l’indice sulle labbra.

Sono di corsa, disse, sono di passaggio. Non avrei dovuto. E devo andarmene, devo andarmene subito...

Ma...

è una storia impossibile, Mario.

Ma, tu sei venuta...

Speravo, speravo di non trovarti

Ma sei venuta!

Ed ora devo andare.

Perché, Justine: perché?

Perché la vita non va come deve andare. Ma sono venuta. Perché non riuscivo a non pensarti. Perché in fondo speravo di vederti. Perché...

Si voltò lentamente e fece qualche passo fino alla balaustra che cinge la fontana. Quando la raggiunsi, si stava asciugando una lacrima col dorso della mano. Appoggiò la sua sacca sulla pietra. Strappò una pagina dall’agendina e cercò una matita. Scrisse qualcosa.

- Se ti va. Se vuoi provare ancora. Possiamo vederci in questo ristorante. Domani sera alle nove. Disse passandomi il biglietto.

Ti prego, Justine: fermati ora.

Non posso. Non posso.

Ma...

Questa volta mi zittì con un bacio. Misterioso e crudele.

A domani, sussurrò. E se ne andò. Quasi correndo.

 

Non provai nemmeno a fermarla. A inseguirla. A rincorrerla. A chiamarla. Ad urlare. A pregare. Rimasi fermo e solo. Appeso all’alibi di un’altra sigaretta. E al pensiero di non aver pensieri. Mentre il gelo trasparente della sera calava troppo in fretta.

Mi sentivo romantico e patetico. Solitario e sciocco. E impotente. Ed incazzato. E giurai e spergiurai che me la sarei levata dalla testa. Che non l’avrei cercata più. Che non aveva senso rovinarsi gli ultimi giorni del mio soggiorno parigino rincorrendo una storia stupida ed insensata. E che in fondo di belle donne era piena la città, e il mondo. E subito raggiunsi Nino e la brigata. E passai la sera a ridere e scherzare. E a bere un po’ di più per esser certo di dormire. E dormii. E la mattina dopo mi buttai sui libri a trascrivere affannato parole che scacciavano pensieri. E poi diedi una mano per la mostra. Cercando di riempire ogni minuto, ogni spazio di pensiero. E ad ogni istante giuravo e spergiuravo che non sarei andato. E che non l’avrei rivista più.

 

Alle sette della sera feci una doccia minuziosa. E scompigliai ad arte i miei capelli. Ed indossai una camicia bianca sui jeans freschi di bucato. E rubai a Gabrielle persino una goccia di profumo maschile. E camminai veloce verso la stazione del Metrò.

Il ristorante era seminascosto in un caseggiato anonimo del quartiere periferico di Montreuil. Fuori, davanti ad una piccola vetrata, c’era un pergolato sofferente, qualche sedia e pochi vecchi che fumavano e bevevano Pastis. Dentro c’erano una ventina di tavoli apparecchiati con tovaglie rosse un po’ consunte. Solo due o tre erano occupati.

Vedendo il mio sguardo spaesato l’oste mi chiede se cerco qualcuno. Dico che ho un appuntamento con una ragazza mora… Ah, la studentessa spagnola, dice lui con un’espressione di complicità maschile che dice senza dire della bellezza rara di Justine. E con il cenno della mano mi indica un tavolo là in fondo, dietro uno scaffale zeppo di bottiglie.

Sono in due. Justine con un tubino nero di maglina che lascia senza fiato. E un’altra tipa, un po’ più bassa, e un po’ più tozza, con una camicia a scacchi sopra i jeans. Quando mi vede, Justine mi viene incontro, mi bacia distaccata sulla guancia, come si fa in Francia quando ci si incontra fra poco più che conoscenti. E mi bisbiglia che non siamo soli, che non poteva lasciare la sua amica e che poi mi avrebbe spiegato. Io le dico che non fa niente, che sono comunque felice di averla trovata, che è bella da annullare l’anima. Lei ride. Io rido. Ci sediamo.

A dispetto dell’aspetto del ristorante, la cena è stata memorabile. Quattro entrate, una zuppa, carne, paté, formaggi ed una selezione di vini perfettamente abbinati. E chiacchiere sottili, morbide e intriganti. La tipa, di cui non ricordo il nome, quasi non parlava. Ma Justine… Justine era uno spartito d’anime e di aurore. Sapeva di vino e di foreste, di sogni e di battaglie, di danze e di coraggio. Mi sfidava con la sua ironia, e mi sfiorava con le gambe che guizzavano di sole sotto il vestito sempre più sottile. Sorseggiava il vino con malizia e beveva divertita il mio palese desiderio. E io non capivo. Non capivo cosa aspettavamo per mollare tavola e tipa e ristorante. Per rifugiarci in qualche alcova improvvisata. E strofinarci fino a farci male e poi godere all’infinito l’infinita bellezza dei nostri corpi giovani e assetati.

Finalmente, dopo il Cognac ed il caffè, ci incamminammo nella notte.

- Fai un salto da noi? mi chiese.

- Perché no, risposi.

E camminammo. Quasi in silenzio, ora. E la tipa, qualche passo più avanti. Che si accende una Gauloise strofinando nervosamente un fiammifero sulla saracinesca arrugginita di un garage. E Justine che si stringe nel giubbotto, ora che l’umidità della notte sembra stemperare ogni certezza. Ed io, che vacillo un po’. Per il troppo desiderio e il troppo vino.

Justine sembra annusare il mio disagio e sfiora i miei capelli coi capelli.

Arriviamo ad un viottolo senza lampioni, stretto fra due ringhiere di casupole a due piani. La tipa estrae le chiavi dalle tasche dei jeans sformati e apre un portoncino in ferro che sta tre gradini sotto il livello della strada. Accende la luce su una stanza minuscola. Di là un’altra stanza minuscola con un materasso sul tappeto. Un piccolo bagno completa l’appartamento.

Ricordo che da ragazzo la zia versava pietosa un secchio d’acqua ghiacciata sull’erezione incontrollata di Bill. E Bill - il nostro bastardino da caccia – s’afflosciava senza requie in un guaito straziato, correndo a rifugiarsi nella cuccia in fondo all’aia.

La vista di quel luogo ristretto s’abbatté come una doccia gelata sul mio desiderio smodato. E anch’io avrei voluto fuggire in qualche tana remota.

Cercavo in affanno con gli occhi una porta che si aprisse su un’altra possibile alcova. Ma c’era soltanto quell’entrata di un metro e poco più, e un bagno di un metro e poco più, e una cameretta soltanto con un materasso adagiato sul tappeto vagamente orientale. Il ghiaccio tagliente incalzò l’intestino, torcendo ogni mia digestione, ogni mia ansia d’amore, ogni mia potenziale erezione.

La tipa andò in bagno facendo rumore. E Justine, con la voce un poco tremante, mi chiese se volevo restare. Con loro a dormire.

Con loro?

Sì, il letto era piccolo, ma stringendoci un po’, disse ancora Justine…

Con loro? In quel fazzoletto di letto? Con quella tipa dal passo pesante?

No, no, balbettai. Come un bambino scoperto. No, no, farfugliai ancora, non voglio, non voglio disturbare. E senza troppo pensare spalancai il portoncino di ferro, brancolai un poco nel nulla e m’appoggiai al muretto del viottolo buio. Justine uscì mentre accendevo una paglia e trattenevo con la mano sul ventre conati di acido umore.

Ti senti male? chiese quasi materna.

Se rivivessi dieci volte la scena, saprei cosa dire. Direi battute sagaci. O feroci bestemmie. O frasi da lurido amante. Ma in quella sera, in quel momento, in quell’umido umore di un sogno annegato, balbettai solo che sì, che non stavo poi così bene. E che avevo bisogno di andare.

Mi dispiace, lei disse sfiorandomi appena i capelli. Mi dispiace, ma non posso lasciarla da sola…

Non fa niente, mentii ritrovando un frammento di uomo. Non sempre le cose vanno come devono andare.

Domani, disse con un poco d’affanno, domani smonto dal turno alle nove di sera. Se vuoi, se ti va, ci troviamo alle nove e qualcosa sotto il solito tiglio.

Nel buio il suo volto appariva poco più di un arcano chiarore.

D’accordo, dissi. Ci vediamo domani, dissi. E me ne andai.

Camminai ancora e ancora nel buio. Pensando e ripensando a quel che avrei potuto dire, a quel che avrei dovuto fare. Poi imbucai il metrò e tornai a casa di Gabrielle. Solo.

Passai un pezzo di notte in bagno. A litigare con il troppo vino, e il troppo cibo, e il troppo pensare e ripensare che forse avevo fatto male a rifiutare. Che forse un’altra vita sarebbe passata in quella minuta stanza, su quel minuto materasso sdraiato ambiguamente su quel tappeto vagamente orientale.

 

Mi svegliò a metà mattina l’entrata rumorosa di Gabrielle che mi diede il bacio del buongiorno  e mi comunicò la brutta notizia: avevano telefonato dall’Italia per dire che mio padre, quella notte, si era sentito male… Avevano telefonato a Nino, perché non sapevano dov’ero.

Ho preferito venire di persona, mi sussurrò Gabrielle, anziché telefonarti.

Chiamai subito casa. Papà aveva avuto un incidente sul lavoro. L’avevano operato. Non era grave, ma mamma – che era senza patente – aveva urgente bisogno di me. Inventai un sacco di scuse per dire a mamma che sarei potuto partire solo in tarda serata, forse col treno di mezzanotte o giù di lì. E che sarei comunque giunto nel pomeriggio... Lei disse di sì, che per un giorno poteva cavarsela.

Mi sentii uno stronzo. Anche se un po’ era vero che mi serviva tempo. Dovevo passare al Bouburg a fotocopiare certi testi. Poi alla Biblioteca Storica per altre fotocopie e per scrivere al volo alcune rare note bibliografiche. E poi dovevo comperare alcuni libri. E salutare gli amici. E… e aspettare Justine.

Mi lasciai coccolare un po' da Gabrielle, che mi preparò il tè, mi tostò  il pane per la marmellata, e mi aiutò a preparare la valigia. Poi mi lasciò per il lavoro. Ed io affrontai la giornata da solo.

Per prima cosa andai in metro alla Gare de Lyon. Parcheggiai la valigia al deposito bagagli ed acquistai il biglietto per il treno di mezzanotte. Quindi attraversai il resto della giornata fra ansie adolescenti, inquieti pensieri e sensi di colpa. Mi torturava l'idea di mio padre consumato nel sudario di un logoro ospedale di provincia. E di mia madre, così fragile e impacciata quando doveva districarsi fra pratiche e dottori. E di una ragazza dolce, a cui avevo fatto una promessa prima di partire. Ma l'oppio di Justine era più forte di ogni possibile dolore. Di ogni probabile pentimento.

Feci correre la giornata verso sera, fra note frettolose, e fotocopie, e la ricerca di libri usati da portare a casa.

Alle cinque abbandonai l'ultima libreria di Rue Saint Séverine e mi incamminai verso il Marais. I passanti parevano le inconsapevoli comparse di un romanzo che stava scivolando troppo presto verso la scena d'addio. E mentre il sole rimbalzava pigro dalle vetrate anziane di Notre Dame, Parigi s’adagiava senza fretta nella malinconica promessa di un autunno da ricordare.

Feci un salto alla mostra per salutare gli amici, che insistevano perché passassi con loro l'ultima sera. Ma raccontai che dovevo proprio vedere una persona che forse non avrei rivisto più. Ci abbracciammo e scesi nella piazza.

 

Mancavano parecchi minuti.

Il buio sembrava più fitto quella sera. E le luci dei lampioni più nebbiose. E l'aria un poco più fredda.

Appoggiai lo zaino al tiglio e accesi una Gitanes.

E aspettai.

E poi accesi un'altra Gitanes.

E aspettai.

E aspettai ancora.

Mi sembrava di vederla ad ogni ombra. Ad ogni soffio. Ad ogni piccolo sussurro.

E aspettai fumando un'altra sigaretta.

Invano.

Erano ormai le dieci quando decisi di andare. E corsi a prendere il metro. E arrivai al ristorante dove la sera prima ero stato ad un passo dal delirio.

C'era pieno di gente quella sera. Ma di Justine nemmeno l'ombra.

Tornai in fretta nella notte e a fatica recuperai la strada che portava a casa sua. Il viottolo cieco.l La porta di ferro sotto ai tre gradini. Suono il campanello. Col cuore lacerato. E busso. E suono. E picchio i pugni sul metallo arrugginito.

Invano.

È tutto spento. Tutto buio. Tutto muto.

Vorrei urlare, e forse urlo.

Vorrei restare lì, all'infinito. Ma guardo l'orologio. E penso a mio padre. E a mia mia madre. E a tutto un mondo che non può capire. E devo andare.

Ma non potevo andarmene senza urlarle addosso quanto m'aveva fatto male. Quanto mi sentivo tradito. A un passo da qualcosa. A un passo, forse, dall'amore. Solo, in quel viottolo deserto. Con un frammento di lacrima che mi graffiava il viso. Io, bulleto di periferia, che non avrei pianto nemmeno in culo al mondo.

Raccattai dalla tasca il pacchetto quasi vuoto di Gitanes. Misi da parte le tre sigarette rimaste e lacerai la scatola per ricavare un cartoncino bianco. Su cui scrissi in un francese da scolaro trope parole: mi sono sbagliato. ti ho creduto e mi sono sbagliato. Merda: tu mi hai tradito, tu mi hai ferito. Addio!

Ho infilato il messaggio sotto il portoncino di ferro e sono scappato via.

 

Di corsa ho preso la metropolitana, di corsa sono arrivato in stazione, di corsa ho recuperato la valigia e ho preso il treno all'ultimo secondo. Poi, nello scompartimento quasi vuoto, ho avuto ore ed ore per scrivere e pensare. All'incanto del suo sguardo zingaro e profano. Al magnetismo della sua bellezza arcana e misteriosa. Alle promesse acerbe del suo seno.

 

Dovetti restare al mio villaggio per alcune settimane: papà aveva bisogno di cure quotidiane e la mamma da sola non poteva mandare avanti la baracca. Io andavo quotidianamente all'ospedale e davo una mano in bottega, ma trovavo anche il tempo per battere la tesi e fare lunghe corse fra argini e cascine, casupole e pioppeti. E pensare e ripensare alla bellezza di Justine.

Di sera andavo al bar da Ivano, dove con i vecchi amici m'intrippavo fra fumo, e birre, e tressette e chiacchiere da osteria. Mi chiedevano delle donne di Parigi, e io li accontentavo con dovizie da romanziere di periferia. Una volta raccontai anche di Justine, e di come c'ero rimasto di merda quando una sera mi aveva invitato nel letto con la sua tipa. Tanto di merda, che me la sono data a gambe. Per anni gli amici del bar mi hanno preso per il culo per quella ingloriosa ritirata. Se ci fossi stato io, dicevano a turno, le avrei...

Trasformare la mia storia con Justine in un racconto da bar sport, era un modo per lenire un po' la nostalgia, e per scacciare l'ansia che ogni tanto mi afferrava. In fondo, mi dicevo, ho perso solo l'occasione per farmi una banale ammucchiata con due lesbiche stranite. Anche se, nel profondo dell'anima...

 

La lettera da Parigi arrivò dopo un paio di settimane dal mio ritorno. Dentro aveva un pacchetto di Gitanes fatto a pezzi. Era il mio pacchetto di Gitanes. Con la mia scrittura incazzosa. C'era anche un foglietto azzurro, con una scritta minuta:

Ho trovato questa sotto la mia porta.

Non aveva alcun motivo per esserci.

Le persone poco affidabili sono quelle che giudicano senza sapere.

Addio! Justine.

 

Non c'era indirizzo. Chiamai subito gli amici di Parigi. Gabrielle si ricordava di una ragazza bellissima e intrigante che era andata alla mostra a chiedere di me. Le avevano detto che ero rientrato d'urgenza in Italia e le avevano dato il mio indirizzo. Ma lei non aveva lasciato loro alcuna traccia. Spiegai a Gabrielle dove abitava Justine, e la pregai di andarla a cercare. Ma la missione della amica fu del tutto vana: l'appartamentino era stato abbandonato dalle ragazze, e nessuno sapeva dove fossero andate. Cosa del tutto normale in una metropoli con migliaia di studenti precari.

Non ho più saputo nulla di Justine. Di lei e della nostra possibile storia mi è rimasta solo quella busta. Col pacchetto di Gitanes strappato. E quel bigliettino azzurro.

 

Sono vecchio, ormai. Ed ho scordato tanti amori e tante donne. Ma non Justine. Non la sua bellezza arcana e misteriosa. Non il suo sguardo nero. Non il gelo del rimpianto che m'assale tutte le volte che penso a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.