la ragazza con il trombone

La ragazza con il trombone

 

Settimane di pioggia e grigiore avevano messo a dura prova  la mia anima e nemmeno quella prima mattinata di primavera sembrava scalfirne la patina scura. Il sole che sgocciolava in balcone, e i fiori nuovi del giardino, e la gazzarra degli uccelli, e le fusa della gatta mentre consumavo lento la colazione avrebbero dovuto regalarmi almeno qualche frammento di gioia, qualche respiro di desiderio, un barlume di fuggitiva attesa. E invece, l'animo restava inquieto. E lo stomaco pareva ancor più rattrappito in una morsa d'indecifrabile malinconia.

Salutai la gatta, baciai la moglie e feci scivolare la Peugeot fuori dal garage. Come sempre.

E come sempre mi lasciai condurre dall'abitudine fra il rosario di villette, e di quartieri ancora addormentati, e di anonime strade di periferia che sbadigliano opache litanie di insegne e capannoni. Mentre la radio nazionale colava nell'aria tiepida evirate giaculatorie sulla crisi politica, e sulla crisi economica, e sulla crisi sociale, e sulla crisi morale, e sulla crisi della crisi.

 

Il parcheggio della scuola era già affollato di vecchi adolescenti che si fumavano l'ultima paglia o l'ultima confidenza prima della campanella. La macchinetta del caffè, le battute stantie con i bidelli, l'umidore paludato della sala insegnanti, il registro e le scale per raggiungere l'ultimo piano del vecchio liceo.

Entro in classe, con passo strascicato, e gli occhiali da sole, e l’aria di chi ha passato la notte a pensare di pensare d’agire. Faccio l’appello, firmo libretti, scrivo registri e li guardo. Ad uno ad uno. Mentre mandano l’ultimo messaggio, mentre copiano l’ultimo compito, mentre raccontano l’ultima storia. E penso, con trasparente malinconia, che oggi è sabato, e che è il primo vero giorno di primavera. E penso, che oggi loro passeggeranno per il centro, o nel parco sottocasa, in cerca di altri adolescenti, di altri umori, di altri amori. In cerca di vita.

Dico ai ragazzi di aprire il libro. Declamo stanco il riassuntino delle puntate precedenti e comincio a recitare i versi centrali dei Sepolcri, quelli che cantano l'incanto dei colli fiorentini accarezzati dalla luna. E subito la mente corre sui colli della mia inquieta adolescenza. Quando anch'io passavo i pomeriggi del sabato a rincorrere amori e desideri.

Spengo il ricordo e torno a Foscolo. E ai miei ragazzi che paiono ascoltare. Qualcuno cerca persino di prendere appunti. E qualcun altro di fare domande intelligenti.

Rispondo paziente e sorridente, tessendo riflessioni paludate e collegamenti arditi. Poi cedo al narcisismo da scrittore provinciale e, su questo argomento, dico, potreste leggere quello che scrivo nel mio libro a pagina…

 

Alessia allora si produce in una smorfia di disgusto. Io la vedo. Lei mi vede. Ma continua a fingere di prendere appunti sull’iPhone mentre probabilmente sta chattando con qualche complice lontana. A cui sta raccontando di quanto si rompe ad ascoltare le giaculatorie di un vecchio prof mentre fuori il sole invita a correre nel vento.

Non resisto e comincio la schermaglia:

- Che c’è, Alessia: ti stai guardando allo specchio?

- Perché, prof?

- Perché ho visto che hai fatto una smorfia di disgusto.

- Veramente, prof, io l’ho fatta pensando al suo libro. Lo sa che mi fa schifo come scrive!

- Hai ragione, ma non te l’ha ordinato il dottore di leggerlo.

- Infatti, non lo leggerò.

Non so se Alessia mi detesta veramente. Certo non perde occasione per lanciare scaglie di sarcasmo contro la mia ostentata vecchiezza, e il mio stile paludato, e il mio linguaggio leccato. E se lo può permettere perché in fondo è intelligente, prende nove nei temi e vince gare di scrittura creativa.

Così, come un bambino, decido di sfidarla.

- Facciamo a chi scrive meglio?

La classe scoppia in un boato di approvazione.

Per me non è un problema, dice lei. Scegliamo l’arma, dico io. L’arma? chiede lei. La poesia, propongo io. La poesia no, dice lei. Un racconto? Facciamo un post, rilancia lei. Può avere anche un taglio narrativo? chiedo io. Lei alza le spalle per dirmi che può andare. Decidiamo il tema, dice Elena. Sì, sì, decidiamo il tema, propone il coro dei ragazzi divertiti.

In quel momento il mio sguardo si è impigliato nel cielo assolato che allagava le grandi vetrate della classe. Mentre i ragazzi facevano a gara per suggerire un tema per la sfida - l'amore, la noia, la scuola, Dio, la morte... - io fissavo quel cielo, oltre i tetti dei condomini popolari.

- Il cielo, ho detto.

I ragazzi si zittiscono per un momento. Il cielo? Chiede Elena come se avessi detto una bestemmia. Il cielo, ribadisco. I ragazzi fissano Alessia con sguardi interrogativi. Lei mi guarda. E alza ancora una volta le spalle con aria scocciata. Per me va bene, dice.

I rappresentanti di classe affinano allora le regole del gioco: entro tre giorni io e Alessia dobbiamo pubblicare nel blog di classe un post liberamente ispirato al cielo. Poi tutta la classe potrà votare e decretare il vincitore.

 

E quello che sto scrivendo, è appunto il frutto di quel duello.

La lezione, quella mattina, riprese un po’ a fatica. I ragazzi erano un po’ meno attenti. Alessia continuava indifferente a pigiare i tasti virtuali dell’iPhone. E io ricominciai a recitare versi mentre sbirciavo ogni tanto quel cielo, oltre i tetti dei condomini popolari.

Ad un tratto, da una vicina classe del liceo musicale giungono le note di una tromba. Mentre in fondo, su un balcone sospeso nel chiarore diffuso, mi pare di vedere una ragazza bionda. E il ricordo si dipinge sfilacciato nell’azzurro …

 

…mezzo secolo fa. Quando il nostro mondo era più povero e più bello. Con i viottoli di campagna disegnati da muretti di sassi e rovi. E le stradine di contrada ancora bianche. E le automobili più timide e sparute. E le vespe, e le lambrette. E le messe con l'incanto dell'incenso. E i vestiti delle feste. E le feste di paese ch'erano feste.

 

A Caprino Veronese la sagra arrivava il due agosto. E per diversi giorni il paese si vestiva di rumori e di allegria. C'erano le giostre al limitare della piazza. E il mercato di dolciumi. E le bancarelle di giocattoli e varia mercanzia. E le strade attraversate da fili e fili con le bandierine. E nuvole di ragazzi che venivano da tutte le frazioni. E frotte di turisti che venivano dal lago. E la processione, e la banda degli alpini, e la corsa dei somari, e gli spettacoli gratuiti nella piazzetta antica del palazzo comunale.

Era l'estate dei miei sedici anni, quella. Ed aggredivo la vita con rabbia e strafottenza. E i capelli lunghi, e le camicie a fiori, e gli stivaletti americani. Nonostante i problemi di condotta, avevo strappato una promozione alla terza liceo. E mi ero buttato nell'estate con la voracità di chi non aspetta tempo. Di giorno andavo in fabbrica a guadagnare in nero qualche manciata di quattrini. Ma di sera, dovevo vivere: passavo ore a bere e a cazzeggiare con gli amici, giocavo a calcio nei tornei notturni, vagavo inquieto fra sagre di paese e mi gettavo senza freni su ogni possibile avventura di sesso o d'amore.

A fine luglio avevo abbastanza soldi in tasca e tanta voglia di cambiare. Così il primo agosto inforcai la vespa e in qualche ora varcai il confine regionale per approdare sottosera a casa degli zii. Si cenò presto e in fretta, perché poi saremmo andati tutti in paese per la sagra. Ma ricordo bene che, fra una fetta di polenta e qualche bicchiere di chiaretto, zio Bigiola non faceva che tessere le lodi del gruppo musicale che quell'anno spopolava nella piazza di Caprino. Una famiglia, un'intera famiglia di musicanti provenienti dalla svizzera tedesca: il padre suonava le tastiere, la madre suonava il violino e cantava divinamente, il figlio più piccolo suonava la batteria e le tre figlie suonavano rispettivamente il basso, la chitarra e il trombone. Ed era soprattutto quest'ultima ad animare lo sguardo e la voce dello zio: se tu vedessi, mi diceva nel suo franco dialetto veronese, quanto è bona quella lì che suona il trombone a tiro, ha una minigonna che cava il fiato a tutti i maschi di Caprino...

L'avvenenza della suonatrice di trombone è stata poi confermata subito dopo dai cugini ch'erano venuti dalle case vicine per salutarmi, bere una lacrima di grappino e ricamare maschie battute sulle gambe e sulle tette della biondona. Solo Agostino - il più vecchio, ma il più saggio e timido di noi – non l’aveva ancora vista.

Dopo il caffè e la paglia io e Agostino inforcammo i destrieri smarmittati per andare in paese a vedere di persona. Parcheggiammo dietro la chiesa e in pochi passo fummo nel vortice di luci e di rumori e di persone e di profumi di porchetta e zucchero filato. La festa s'avvoltolava attorno a noi come uno sciame dolciastro di promesse e ogni musica ribelle proveniente dalle giostre animava la nostra camminata da barbari impudichi. Fendemmo la folla gaudente della piazza ed arrivammo in fretta al cortile antico del palazzo comunale dove centinaia di persone, anche in piedi,  ascoltavano in silenzio l'incanto del concerto.

 

La musica fluiva facile e leggera nella notte calda e profumata. Come una poesia. O una malinconica preghiera. E mentre mi avvicinavo con lentezza, smorzavo ad ogni passo l’aria da bulletto strafottente. Intimidito quasi dalle sonorità classiche e desuete. E dall’eleganza dei musicisti vestiti di nero: papà e figlioletto con lo smoking, la mamma col tailleur, le ragazze con un tubino aderente. Molto aderente. E molto corto.

Ci fermammo, a pochi passi dal palco, rasenti il muro. E mio cugino mi dava gomitate sceme, mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla ragazza bionda che suonava il trombone. Mi pareva di non aver visto mai una simile divinità: tenera e marmorea, sensuale e religiosa.

Poteva avere la mia età. Ma era più alta, e slanciata, e solenne, e bionda. E mentre sua madre intonava con una vocalità da brividi The sound of silence, lei ci guardava nel buio con un mezzo sorriso, conscia della sua letale avvenenza.

Guardai l’orologio. Doveva mancare ancora un po’ di tempo alla fine del concerto. Dissi ad Agostino di aspettarmi lì e mi precipitai fuori dalla piazzetta, verso i banchi della fiera, ricorrendo un’idea. E correndo fendevo la folla che mi stramalediva, ma trovai in fretta quello che cercavo: il mercante di fiori. E comprai una rosa. Rossa. E tornai, di corsa, al concerto.

L’orchestrina stava eseguendo un pezzo dei Beatles e lei cantava assieme alla madre e il pubblico pareva in apnea. Raggiunsi Agostino, che non aveva mollato la posizione, e seguiva a bocca aperta i riflessi dei fari di scena sull’abbronzatura nuda delle sorelle. Dopo un paio di pezzi, il padre annunciò l’ultimo canto. Il cuore cominciò a strattonami la maglietta. La sudorazione aumentò e stavo per desistere, quando Agostino si accorse della rosa e mi diede un’altra gomitata scema per farmi capire che aveva capito. A quel punto non potevo più ritirami. E così ostentai la sicurezza di un dongiovanni da sagra paesana, accesi una paglia e aspettai gli applausi finali, e il bis, ed altri applausi finali, e le autorità in prima fila che andavano a complimentarsi, e a stringere le mani, e… Accesi un’altra paglia. E poi avvenne che le due sorelle più grandi facessero qualche passo oltre il palco, da sole, verso la parte più buia e meno affollata della piazzetta. Dissi ad Agostino di seguirmi, ma lui mi disse che ero matto e se la diede a gambe. Lo mandai in mona e con una piccola manovra di aggiramento feci in modo di trovarmi davanti alle ragazze.

Sfoggiai un sorriso da imbecille e mi tolsi un cappello immaginario facendo un inchino teatrale. Quando rialzai la testa, le ragazze stavano ridendo.

- Alla ragazza più bella, declamai porgendole la rosa.

Prese la rosa con grazia ostentata e si mise a ridere con ubriacante candore.

- Mi chiamo Mario…

- E io Laura…

- Posso accompagnarvi?

- Stiamo andando a prendere qualcosa da bere, disse in un italiano stentato.

Arriviamo assieme al bar dell’albergo Cristini, a due passi dalla antica piazzetta. Troviamo un tavolino libero sulla storica terrazza che s’affaccia sul corso principale. Ordiniamo da bere, e sorridiamo, e scherziamo, e ci raccontiamo un po’. Abitiamo a Basilea, diceva Laura col suo buffo accento tedesco, e frequentiamo scuole tedesche. Papà è direttore d’orchestra e mamma una concertista. In Svizzera ogni tanto andiamo in tv. A Caprino abbiamo i parenti, e ci veniamo d’estate in vacanze. Il sindaco, che conosce papà, ci ha pregati di fare un concerto. E così facciamo un po’ i saltimbanco. E beviamo, e ridiamo, e scherziamo, e ci raccontiamo ancora un po’. Mentre la gente sfila per il corso. E io vedo gli sguardi dei maschi che s’incollano umidi alle gambe di Laura. E al suo tubino nero che accarezza sogni proibiti. E ai lunghi capelli biondi che riflettono i riflessi di una sagra d’estate. E alle sue labbra fanciulle e sensuali che mi fanno impazzire, anche se parlo, e rido, e scherzo come se non avessi un desiderio lacerante di toccare quel corpo divino, di adagiarmi infinito sulla sua infinita beltà. Sto raccontando un altro frammento di me, quando le ragazze spengono di colpo sogni e sorrisi. E tornano algide e altere. Impettite. Guardo dove guardano e vedo il padre che marcia su noi con animo scuro. Si ferma a due passi. Quasi urla, qualcosa, in tedesco. Le ragazze si alzano in fretta e vanno con lui. Nella notte.

 

Una notte trascorsa fra mille pensieri e un unico sogno.

 

Il sole d’agosto già inondava di mistica luce le colline quando spalancai inquieto la finestra. Giù, nel cortile, il cane abbaiava ai tacchini, lo zio scaricava il fieno dal carro, la zia tornava dall’orto con la nuova verdura. In cucina la nonna mi aveva preparato la solita colazione abbondante, che ingurgitai eccitato prima di precipitarmi con lo scooter in paese. Al bar della piazza trovai Agostino con un paio di amici che mi accolsero come un eroe: ero il primo maschio indigeno che riusciva a parlare con le ragazze svizzere: il padre, infatti, non voleva che le figlie facessero troppo comunella coi ragazzi del luogo. Ma io non mi accontento certo di qualche parola, dissi con fare sfrontato e allusivo. Mi feci spiegare dove abitavano e ci andai. La villetta era chiusa. Una ragazza che conoscevo di vista, e che abitava lì vicino, mi disse che erano andati tutti al lago, a Bardolino, credeva. Ma nel tardo pomeriggio, verso le sei, le ragazze sarebbero state in fiera, dalle giostre, disse. Lo sapeva perché si erano date appuntamento per andarci assieme.

Cercai di fare correre il tempo scorrazzando per i colli con la vespa fedele, sdraiandomi sotto il rosario di cipressi per scrivere poesie, giocando col vecchio cane da caccia, aiutando lo zio a scaricare un carro di fieno. E alle cinque della sera feci la doccia gelata, infilai una t-short pulita, passai da Agostino e assieme andammo alla fiera.

 

Con una paglia, e la birra in mano, e i lunghi capelli e lo sguardo insolente è più facile aggredire la vita. E muoversi nella folla senza sentirsi folla. E dominare il rumore di mille canzoni disseminate nell’aria profumata dai venditori di porchetta e zucchero filato.

Arrivammo all’autoscontro dove gravitavano, prima o poi, tutti i ragazzi del paese. Ci procurammo i gettoni, pronti ad ogni eventualità. E dopo una decina di minuti passati in compagnia a sparare cazzate il miracolo avvenne. Come in una visione di salvezza nella trasparenza liquida di un deserto, Laura attraversava la folla con leggerezza. Indossava un paio di minuscoli short. E una maglietta candida che lasciava scoperto l’ombelico e copriva inutilmente il seno. E nella la mia mente si fece il silenzio. E nella mia mente si fece il buio. E nella mia mente si fece la luce. Lei mi vide. Io sorrisi. Lei sorrise. Io la invitai con gli occhi. Lei alzò le spalle e approfittando di un paio di amiche che stavano scendendo, salì con la sorella su una macchina. Che subito si mescolò nel vortice delle altre macchine sospese nel caos di luci, e grida, e risa, e musica sparata.

 

Guidava con la disinvoltura di una monella che cerca la lotta con l’aria divertita di una martire indifesa. I suoi capelli danzavano sugli occhi innocenti. I suoi capelli volavano su occhi maliziosi. I suoi capelli mi facevano impazzire.

 

Urlai pregando un amico di lasciarmi la sua macchina. Ebbe pietà, e alla fine del giro scese.

 

Costringendo Agostino a salire con me, balzai sulla macchina impaziente di gettarmi nella mischia. Che subito riprese. E subito rincorro Laura. E  ci affianchiamo. Ci lasciamo. Ci ritroviamo. Ci scontriamo. Ci parliamo con gli occhi. E i nostri muti messaggi di giovinezza si fondono con le luci psichedeliche, e il sudore gelido dell’anima, e la chitarra feroce dei Deep Purple. Guido con impazienza, senza perdere di vista Laura. Senza perdere di vista i suoi capelli. Che danzano sensuali. E  ci affianchiamo. Ci lasciamo. Ci ritroviamo. Ci scontriamo. Ci parliamo con gli occhi.

 

Ad un tratto, Laura si ferma. E scende. E raggiunge con la sorella il gruppo di amiche assediate da frotte e frotte di ragazzi. Scendo anch’io. Eccitato e stordito. E mi fermo a qualche metro. E la guardo sperando di incontrare ancora il suo sguardo. Ma per eterni secondi non mi vede. O non mi guarda. E si lascia corteggiare da quella banda di stupidi spacconi. E ride. E sembra divertirsi. E sembra ignorarmi. E sembra volermi cancellare. Poi, finalmente mi guarda, e si scosta i capelli dalla fronte, e schiude le labbra, e mi sorride. Soffoco la paura e vado verso di lei. In silenzio. Ignorando la gente. Ignorando il tempo e la gravità. E tendo la mano. Senza rete e senza respiro.

 

Lei mi sospende la vita per un attimo eterno.

 

Poi, allunga la mano. E assieme, leggeri come nuvole ubriache, usciamo dal branco. E camminiamo verso il bordo della terra. Verso il vuoto. Dove mi porti? chiese in un sussurro. Ti porto a volare, dissi.

 

Oltre la folla, oltre il piazzale, oltre l’ultima fila di tende e baracconi, si apre un varco. Verso un prato sospeso sulla valle. Dove gira una giostra antica e solitaria. Selvaggia e fuori moda. Non c’era la folla. Pochi vecchi ragazzi occupavano pochi seggiolini sospesi.

 

È la mia giostra preferita la calcinculo. Ci ho passato ore e ore sui suoi seggiolini volanti. Quando gli zingari venivano al mio villaggio, io lavoravo per loro pur di avere biglietti omaggio. Mi piaceva da morire volare nel sole, e sperimentare volteggi arditi, e prendere slanci al limite del possibile per calciare con forza la seggiola di fronte in modo da spedire l’amica di turno più in alto possibile. Per poi riprenderla al volo, e intrecciare di slancio le nostre catene, e roteare nell’aria fino all’ebbrezza.

 

Laura scuote la testa, esitante. Non ci sono mai stata su questa giostra, sussurra. Io ci ho passato una vita, le rispondo. Compro un po’ di biglietti. L’aiuto a salire e salto sul seggiolino dietro. L’amico zingaro abbassa la leva, e la giostra comincia a girare. E girare. Lenta. Lenta. Poi veloce. Veloce. Veloce. Le catene si tendono nell’aria, verso il vuoto, e le montagne lontane, e il lago giù in fondo, e l’estate infinita della nostra adolescenza.

 

L’amico zingaro mette un disco di Santana. Il sole dipinge nel cielo un tramonto diffuso. E noi respiriamo felici stracci di nuvole che corrono sopra i nostri sogni fugaci. Sopra i nostri desideri impudichi. Sopra il tutto. E sopra il nulla. Mentre la giostra corre più in fretta. E più in alto. E allora giro il suo seggiolino verso di me. E voliamo nel cielo guardandoci negli occhi.

Sei pronta? le sussurro. Lei stringe gli occhi, e fa sì con la testa. E allora stringo forte le catene, e comincio a farle oscillare, sempre più forte, sempre più forte, fino a prendere il massimo slancio, e poi appoggio i piedi al suo seggiolino, e con tutta la forza della mia straripante giovinezza la faccio volare ancora più in alto. Lei urla di gioia mentre sfiora di un nulla il fiocco appeso all’ultimo gancio. E urla ancora di gioia bambina mentre precipita verso di me, e io l’afferro al volo,e lascio che le nostre catene s’attorciglino con violenza, fino a stringerci in un abbraccio sensuale. Uno di fronte all’altro. Nel vuoto. Nel cielo. Nel sole al tramonto. Con i capelli che si sfiorano. E gli occhi che si sfiorano. E le labbra che si sfiorano. E le labbra che si cercano. E le labbra che si fondono in un bacio infinito.

 

Poi, anche l’infinito ebbe una fine. E la giostra cominciò a rallentare. E aprimmo gli occhi. E toccammo la terra con i piedi. Fra gli applausi dei vecchi ragazzi lì sotto. E il sorriso malizioso dell’amico zingaro. Mi gira un po’ la testa, mormorò Laura abbracciandomi. È tardi, disse ancora. Dobbiamo andare.

 

Camminammo in silenzio verso la sera e il caos della piazza.

 

Recuperammo la compagnia di Laura in gelateria. Sua sorella protestò per il ritardo, ma si quietò quando Laura le disse che ci pensava lei con papà. Mi offrii di accompagnarle a casa. Laura disse di no.

 

- Posso rivederti questa sera? le chiesi quasi tremando.

- Sì, Mario. Questa sera. E anche domani. E posdomani ancora.

 

E fu così.

 

Ma il mio racconto si ferma qui. Perché in fondo, i miei giorni con Laura si risolvono tutti in quel rapido volo. Nel groviglio leggero di libere catene che dipingono nel cielo d’estate un’eterna attesa d’amore.