L'idea di metterci le rane nei titoli di alcuni miei articoli e nelle intestazioni di tanti miei blog disseminati - e alcuni già defunti - nella rete, deriva da una mia antica esperienza da scolaro in una scuola media della bassa padana. Dove si studiava poco, ma si andava spesso sull'argine del Po a... Come racconto in questo articolo di una vita fa, giurassico per alcuni aspetti, ma attuale nella sua di dea di base.

Libri, rane e computer

Spesso, dietro ad affermazioni semplici – quasi banali – s’annidano decenni di riflessioni, scaffali di libri, eterni dibattiti, grandi studiosi. Così, dietro all’affermazione che è meglio imparare attraverso l’esperienza – attraverso l’interazione senso-motoria con la realtà e non solo attraverso il linguaggio – ci sono le fatiche di Freinet, Montessori, Dewey, Piaget, Vigotskij, Gibson…

 

La supplente di campagna

 

Difficilmente la supplente di scienze che ho avuto in prima media conosceva questi signori, era consapevole di portare acqua al mulino dell’anticognitivismo ed aspirava ad inventare un nuovo modo di fare scuola. Assai più probabilmente si trattava semplicemente una balda neolaureata che non amava passare ore chiusa in una grigia aula ricavata nell’umido sottoscala del vecchio municipio. E in questo aveva tutta la nostra solidarietà.  Le ore di scienze, così, si tramutavano in chiassose paseggiate fra campi coltivati, stalle, caseifici, pioppeti ed argini maestri. Si osservavano foglie e sassi, si raccoglievano lombrichi e coleotteri, si mescolava latte e caglio. Un giorno divenni un eroe avvistando una biscia che aveva appena ingoiato una rana. Angelo la catturò, Remo la strizzò fino a farle sputare la preda ancora intatta mentre la prof. ci faceva capire come e perché la biscia riusciva ad ingoiare bocconi così grandi rispetto al diametro del proprio corpo. A queste lezioni partecipavano tutti, anche quelli che di solito usavano i libri solo per farci disegni osceni.

L’anno dopo al posto della vivace supplente venne la signorina Masetti: era quasi sempre di bianco vestita, ci dava del lei, non si muoveva mai dalla cattedra e dal libro che leggeva – e forse chiosava – riga per riga. Nessuno stava attento. E Livio, Angelo, Fulvio… approfittavano delle ore di scienze e matematica per mettere a frutto le esperienze accumulate l’anno precedente: un giorno la signorina Masetti quasi sveniva per l’innocuo scorpioncino rinvenuto nel registro, un altro urlava per la biscia spaventata che qualcuno aveva depositato nel cassetto della cattedra e un altro ancora scappava inorridita dal ranocchio – da lei scambiato per un rospo – inopinatamente sfuggito dalle tasche di Remo. 


Nudi, ma alla meta?

 

Remo, Livio, Angelo, Fulvio, Franco… dopo vari richiami, sospensioni e qualche bocciatura non hanno finito le scuole medie. Di tutta la mia classe solo in due – forse in tre – abbiamo raggiunto il diploma di maturità. Solo io mi sono laureato.

Forse una scuola improntata ad una pedagogia più attiva e basata sull’esperienza avrebbe recuperato i miei compagni? L’insuccesso scolastico è da attribuire principalmente ad un apprendimento fondamentalmente passivo e quasi del tutto basato sull’apprendere dalle parole? È meglio rinunciare da una percentuale di astrazione pur di portare tutti - magari anche nudi - alla meta?

Può darsi. Anzi: quasi sicuramente. Una scuola alla Freinet, alla Don Milani o magari anche solo alla “mia supplente di scienze” avrebbe portato più persone al traguardo. Probabilmente avrebbe coinvolto nel suo percorso gli alunni meno motivati. Sicuramente sarebbe stata una scuola meno noiosa. Ma…

Ma una scuola del genere avrebbe avuto bisogno molti bravi insegnanti (per l’insegnante mediocre e/o poltrone è assai più facile trincerarsi dietro le pagine del libro o gli appunti da dettare), di grande flessibilità e soprattutto di grandi mezzi. Poche di queste condizioni, però, appaiono plausibili in una scuola di massa e con un massa di insegnanti. Imparare attraverso il linguaggio, poi, ha in ogni caso altri vantaggi rispetto all’apprendere attraverso l’esperienza: attraverso il linguaggio possiamo conoscere tutto: qualsiasi aspetto della realtà può essere descritto e spiegato attraverso le parole, mentre ci sono molti aspetti della realtà di cui non possiamo fare esperienza diretta.

Il regno della parola

Così, sia per criteri di pratica utilità (basta un’aula, un libro ed un tizio che tenga l’ordine e parli per “insegnare” ad una trentina di alunni) che per presunte giustificazioni pedagogiche la scuola italiana è diventata – nel bene e nel male - il regno pressoché incontrastato della parola. Il 90% del rapporto pedagogico si basa sulla parola orale (l’insegnante che dalla cattedra descrive e spiega; lo studente che sotto interrogazione descrive e – talvolta – spiega) e sulla parola scritta (il testo che descrive e spiega persino i fenomeni chimico-fisici; lo studente che nel compito in classe descrive – e talvolta spiega – quanto appreso dai libri o dagli appunti presi alla lezione).

Non è il caso ovviamente di indulgere a facili catastrofismi o di portare acqua al mulino dei detrattori della scuola pubblica: questa scuola, la nostra scuola, ha fatto molto per la nostra società. Talvolta ha fatto miracoli con i mezzi a disposizione. Ma oggi è chiamata a fare qualcosa di più e di diverso. La sua povertà di mezzi, la sua rigidità, il suo stesso spessore culturale (fatto soprattutto di una grande tradizione linguistico-umanistica) la rendono in molti casi inadeguata ad affrontare le complessità delle nuove realtà. 

 

La rivincita di Mario e Pikachu

 

Una scuola che si basa essenzialmente sulla comunicazione linguistica, ad esempio, rischia uno iato profondo con l’attuale società di massa che privilegia la comunicazione iconica.

Imparare attraverso il linguaggio, infatti, richiede “in chi deve apprendere buone capacità linguistiche, un buon vocabolario e buone capacità di mettere insieme le parole e le frasi nei discorsi, nella comprensione e nella produzione. Tali capacità possono però non essere possedute da tutti coloro che devono apprendere, e questo può accadere non solo perché gli studenti che provengono da famiglie e ambienti sociali meno abbienti e meno colti tendono a non avere buone capacità linguistiche, ma perché oggi la cultura di massa e le nuove tecnologie dell’informazione non privilegiano più il linguaggio come mezzo di comunicazione. Così, se l’insegnamento fa troppo affidamento sul linguaggio, si rischia di non avere apprendimento” (Parisi 2000, p. 80).

La società, già indelebilmente plasmata dal potere iconico delle televisioni, è stata definitivamente investita dalla rivoluzione digitale. Le giovani generazioni si muovono agevolmente fra i livelli infiniti dello zapping televisivo, dei link internettiani e, soprattutto, dei mondi virtuali dei videogame. E gli insegnanti che si sono formati sui libri, si trovano spesso a dialogare con alunni cresciuti alla scuola dei Pokémon, delle chat e di Super Mario: ciò provoca spesso disagio, riprovazione, incomprensione, indifferenza, a volte ostilità.


Il sogno di Freinet & Co.

 

La scuola, oggi, non può permettersi di allontanare da sé troppi Fulvio, Angelo, Remo, eccetera. Per questo deve fare uno sforzo per recuperare la comunicazione iconica e per aumentare la didattica dell’esperienza. E in simile sforzo potrebbe appoggiarsi a quel protagonista della rivoluzione tecnologica che in buona misura l’ha spiazzata: il computer. Imparare con il computer, infatti, porta a ridimensionare il ruolo del linguaggio nell’apprendimento. Il computer non dà il suo massimo con le parole, ma con le immagini, le animazioni, le visualizzazioni, l’interattività. “Un ragazzo che impara vedendo e agendo su quello che vede può imparare anche se le sue capacità linguistiche non sono eccellenti; può imparare anche se la sua motivazione ad apprendere usando il solo linguaggio non è molto forte; può imparare facendo meno fatica con la sua mente perché le immagini e le azioni forniscono i significati senza che, come avviene con il linguaggio, questi significati debbano essere generati nella sua testa; e può imparare in un modo maggiormente basato sulla comprensione e quindi in maniera più solida e permanente” (Parisi 2000, p. 67).

Quando diciamo queste cose, ovviamente, pensiamo soprattutto alle grandi potenzialità di interazione che il computer offre. E non ci riferiamo solo alle note tipologie degli ipertesti (CD-ROM o pagine web). Nella maggior parte degli ipertesti, infatti, l’interattività è parziale: l’utente agisce solo nel senso che sceglie cosa vedere e dove andare rispetto una serie di possibilità date. In fondo questo non è poi molto diverso dalla zapping televisivo. Certo, poter manipolare una figura (la riproduzione di una cattedrale gotica piuttosto che di un atomo di idrogeno) che ho davanti ingrandendola e rimpicciolendola, cambiando il punto di vista, entrandoci dentro, girandole intorno… è sicuramente importante. Così come è importante utilizzare la tecnica dei videogiochi più intelligenti che consentono di esplorare mondi paralleli e risolvere problemi. Ma ancora più decisivo è che il computer può rendere visibile ciò che non lo è. Il computer può riprodurre modelli simulativi dei fenomeni. E tali modelli simulativi possono trasformarsi in “laboratori didattici virtuali, cioè in ambienti in cui lo studente ha la possibilità di manipolare variabili e osservare gli effetti delle sue manipolazioni, di fare previsioni e di controllarne la validità”. Le nuove tecnologie, insomma, renderebbero veramente possibile il sogno di Freinet & C.: una scuola attiva in cui la conoscenza viene costruita da chi apprende e non passivamente ricevuta da chi insegna. 

 

Si fa la rivoluzione?

 

Non si tratta ovviamente di tirare la volata alla civiltà dell’immagine, né di affermare che la cultura dei manga sia superiore alla speculazione filosofica. Ma solo di prendere atto che una scuola nuova, una scuola della contemporaneità, una scuola che voglia comunicare con i propri soggetti deve perlomeno concedere alla pedagogia attiva e basata sull’esperienza e l’interazione con la realtà (sia pure simulata) almeno il 50% dello spazio. Il resto può rimanere dominio della prassi didattica tradizionale. Tenendo conto, comunque, che le nuove tecnologie facilitano ed amplificano pure le possibilità della comunicazione linguistica, come dimostrano la potenza dei word processing e dei dizionari in linea, le nuove modalità stilistiche veicolate dall’uso della posta elettronica, la facilità di reperire bibliografie e testi in rete, eccetera.

Il computer, dunque, è la vera rivoluzione scolastica. O dovrebbe esserlo. Perché per esserlo veramente ogni alunno dovrebbe avere un computer sul suo banco, magari un portatile. E questo computer dovrebbe essere in rete (wireless). E dovrebbe funzionare. E dovrebbe essere aggiornato. E la struttura scolastica dovrebbe essere ridisegnata: pochi spazi per lezioni frontali (le lezioni frontali si possono fare anche a cento alunni contemporaneamente) e molti spazi per laboratori didattici. E tutti gli insegnanti dovrebbero confrontarsi con le nuove tecnologie. E ci vorrebbero più tecnici informatici, webmaster, programmatori… E… appunto: ci vorrebbe la rivoluzione. Secondo la fede di un tempo: cambiare le strutture, per cambiare l’uomo.

Ma pure se la teoria potrebbe essere considerata da qualcuno eticamente e politicamente corretta (quante rivoluzioni rapide – e quindi in qualche modo violente – hanno veramente cambiato l’uomo attraverso il cambiamento delle strutture?), è inutile ricamarci sopra: nessuna classe dirigente avrebbe il coraggio di investire così tanto nella scuola e di sfidare il conservatorismo radicale degli addetti ai lavori. Si tratta allora di tradire – ancora una volta – le teorie rivoluzionarie per abbracciare il pragmatismo del riformismo spicciolo. Cambiamo – sia pure a piccoli passi – l’uomo, nella speranza che cambino un pochino anche le strutture (e quindi la prassi didattica). 

Meglio un riformismo annacquato

Ma anche costringendoci ad aspettative minimalistiche, rischiamo pesanti frustrazioni. La scuola sembra proprio in ritardo anche rispetto ad un riformismo annacquato. Il computer influenza ormai ogni aspetto della nostra vita economica, sociale e culturale, ma la scuola ignora il computer. Non mi riferisco tanto al fatto che nelle scuole ci sono pochi computer (alcune decine di macchine per scuola sono arrivate grazie ai piani ministeriali, ma sono quasi sempre ghettizzate in laboratori grigi ed affidate alla buona volontà di qualche volontario alchimista dei bit). Mi riferisco soprattutto al fatto che il computer (la rivoluzione digitale…) non viene ancora riconosciuto come oggetto di riflessione culturale, psicologica, antropologica, eccetera. Insomma: non solo la scuola non partecipa alla rivoluzione informatica, ma non si preoccupa nemmeno di proporsi come coscienza critica di una rivoluzione che forse coscienza critica non ha.

Visto però che abbiamo deciso di affidarci alla logica riformista e minimalista, cerchiamo di vedere anche il bicchiere mezzo pieno e di essere propositivi: in attesa di una improbabile riforma strutturale, siamo noi singoli insegnanti che, sia pure a piccoli passi, coi nostri tempi e a seconda dei nostri interessi (o potenzialità, od impegni istituzionali) dobbiamo prendere – perlomeno – coscienza della rivoluzione in atto e cominciare – passo dopo passo - a confrontarci con le nuove realtà che ci circondano. Magari iniziando da piccole esperienze. 

La sublime repulsione della pelle viscida

Spesso, infatti, davanti a ragionamenti molto complessi - scaturiti da decenni di riflessioni, scaffali di libri, eterni dibattiti, grandi studiosi… - possono starci comportamenti molto semplici. Così, davanti alle bibliche fatiche di Freinet, Montessori, Dewey, Piaget, Vigotskij, Gibson, Parisi…, ci può stare una giovane supplente di scienze che ci insegna il comportamento di rettili ed anfibi facendoceli incontrare.

Cosa farebbe oggi quella supplente? Forse ci farebbe interagire con dinosauri virtuali e modelli simulativi dell’ecosistema. Ma se anche parlando di rane mi proponesse simulacri digitali, ne rimarrei deluso. Mi mancherebbe l’emozione di una passeggiata lungo l’argine maestro, le scazzottature scherzose coi compagni, il timore di cadere nel fosso per raccogliere un mughetto, la sublime repulsione di una pelle viscida fra le mani.

La scuola, insomma, non può – e forse non deve – diventare un universo ipertecnologico, ma può – e forse deve – diventare un luogo dove libro, computer e rane possono convivere più o meno pacificamente.

(Agati Mario, Commessaggio, vacanze di natale 2000)